
Nonostante lo sviluppo delle tecnologie ottiche, delle Leica che, già da alcuni anni, avevano iniziato a diffondersi e a farsi apprezzare per la loro maneggevolezza; nonostante la celebrazione del cinema che, specie in Italia, aveva visto nascere precocemente il fenomeno del divismo, e sebbene la strada dell’affiche, della cartolina e delle riviste illustrate fosse stata ormai abbondantemente percorsa, la Prima guerra mondiale fu una guerra “cieca”. Poco vista e ancor meno mostrata, e per diversi motivi. Il primo dei quali fu la scomparsa del nemico. Un nemico esisteva, sì, ma per il soldato che viveva in trincea, nel fango, tra i pidocchi, i topi e in una condizione di straniante e frustrante isolamento, era come se non ci fosse. Il nemico era scomparso dal suo campo visivo e ci si accorgeva di lui solo quando si manifestava sotto forma di gas (lacrimogeni, asfissianti, vescicanti) o di bombardamenti inaspettati. E, quando lo faceva, quando la guerra irrompeva in tutta la sua brutalità, ecco che, però, non poteva essere rappresentava. L’orrore della guerra tecnologica non rientrava, infatti, nei canoni ottocenteschi del rappresentabile. Bisognava tacerla, nasconderla, perché l’esplosione di una granata rendeva i corpi osceni, molto diversi da quelli colpiti da un proiettile o trafitti dalla lama di una spada. In una parola sola, impresentabili. La diretta conseguenza fu che si chiese all’immagine dal vero d’imparare a mentire. Si inventò, cioè, una guerra senza dolore, o, meglio, una guerra dove la battaglia e il dolore vennero abilmente strumentalizzati. Una guerra dove i morti erano sempre e solo i nemici, gli ospedali erano fulgidi esempi di organizzazione, i feriti erano amorevolmente assistiti e i mutilati già riabilitati…
Della Grande guerra, che mobilitò milioni di uomini, una quantità smisurata di mezzi e che, con il suo numero impressionante di morti, resta ancora oggi una delle tragedie più ingombranti dell’umanità, che cosa ci rimane dal punto di vista delle immagini, considerato che fu la prima guerra mediatica della Storia? Ci rimane del materiale, sì, ma si tratta di materiale (quasi) sempre uguale a stesso. Questo è l’assunto su cui si basa il corposo saggio di Gabriele D’Autilia, docente di Media e culture visuali presso l’Università di Teramo, che, in quattrocento pagine abbondanti, analizza la Prima guerra mondiale da un punto di vista decisamente affascinante e poco indagato: il suo rapporto complesso con i media, che sarebbe sfociato in una contraddizione, che avrebbe interessato trasversalmente fotografia, cinema e illustrazione. Se le foto più ricorrenti della Grande guerra ritraggono sfilate militari, gruppi di soldati in trincea, panorami dove non si riconosce nulla, innocui sbuffi di fumo e ufficiali che scrutano, assorti, il fronte con il cannocchiale, il cinema di non fiction sperimentò la noia da parte del pubblico, che, abituato ai kolossal con le grandiose battaglie degli antichi Romani e in assenza di (censurati) cadaveri insepolti e di soldati esausti, si rifugiò presto in un cinema di fiction e d’evasione. E poi c’erano i manifesti murali (specie quelli per i prestiti nazionali) e le cartoline (soprattutto reggimentali) che, utilizzando il rodato linguaggio commerciale e oltrepassato lo sbarramento di un’attenta censura, restituivano rassicuranti immagini (mai fotografiche) muliebri o infantili, dove l’accenno alla guerra era racchiuso nella parola “vittoria” o nello sguardo innamorato del marito/genitore richiamato al fronte. Nel saggio, che affronta con pari profondità la comunicazione visiva della guerra nei vari ambiti mediatici, lo sguardo dell’autore si allarga spesso anche agli altri stati, oltre l’Italia, coinvolti nel conflitto. Una panoramica che rafforza la sua tesi di fondo: la Prima guerra mondiale è stata una guerra non solo cieca, ma intrinsecamente contraddittoria, avendo creato “allo stesso tempo il veleno e l’antidoto, i mezzi di distruzione e l’impasse della trincea, la cecità e le protesi ottiche”.