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La guerra non ha un volto di donna

La guerra non ha un volto di donna

Quando si va al fronte si perde la propria umanità: un civile impiega mediamente tre giorni per imparare a diventare un buon soldato. Vale per gli uomini, vale anche, soprattutto, per le donne. Così non è strano vedere emergere in una donna la freddezza e la determinazione di uno killer spietato: è a capo di un piccolo gruppo di alcuni altri ragazzotti quando si imbatte in un quattro soldati tedeschi; li fanno prigionieri, ma non è il momento di fare prigionieri e quindi, sapendo di non poter contare sul sangue freddo dei suoi compagni, è la donna a freddare i quattro soldati nemici. Non fa neanche scalpore ritrovare tanta sete di vendetta in una donna che gode nel vedere uccidere lentamente chi aveva ammazzato senza pietà sua madre, sua figlia ed i suoi cari. La guerra trasforma l’anima, non genera atti di eroismo, ma di sopravvivenza. Una madre è capace di far annegare il suo neonato se piange troppo rischiando di far scoprire i fuggitivi. Una donna vive ogni momento con enorme disagio umano: perde la sua femminilità, perde la regolarità del suo corpo, perde la gioia di costruire una famiglia, ha una sensibilità scossa e umiliata. Nella fine di un conflitto, entrando a Berlino, non riesce ad assaporare il piacere della fine della tragedia, non pensa al matrimonio: ha bisogno di tempo per ricostruire la sua vita e la sua anima. Ha bisogno anche di quarant’anni per poter far riemergere il fiume di tragedie che ha sconvolto la sua esistenza...

La storia di questo saggio di Svetlana Aleksievič, giornalista e scrittrice russa, di origini bielorusse, premio Nobel nel 2015, è quella di tutti i romanzi, racconti e testimonianze nate nella Russia sovietica, cioè una storia di censura: già pronto nel 1983, il brogliaccio fu più volte respinto dagli editori e vide la luce con Gorbaciov, con la perestrojka. Il motivo di tanto clamore era ed è legato al profilo del popolo sovietico che emerge con potenza da questa narrazione, un popolo sicuramente patriottico e coraggioso, ma non eroico in senso epico, perché ne è esaltato l’aspetto umano attraverso la narrazione drammatica delle imprese delle donne. La vittoria è costellata di vergogna. Nel 1941, in piena Operazione Barbarossa, di fronte all’avanzata dell’esercito nazista, Stalin fu costretto a riempire i buchi di un esercito russo decimato e stremato arruolando donne con ruoli e mansioni che normalmente sarebbero state ricoperti da uomini. E quelle donne, con il loro coraggio, il loro eroismo quotidiano, riuscirono a tenere insieme la resistenza russa e far indietreggiare l’avanzata delle truppe di Hitler. Svetlana lo ammette fin da subito: non racconta storie, non intende ricostruire la storia, né tanto meno la guerra, ma i sentimenti forti e contrastanti che nascono in quei frangenti, quando uomini e donne sono chiamati a fare ricorso ad energie profonde che non immaginano neanche di possedere. Per questo Svetlana Aleksievič riscrive la grammatica della guerra puntando a dare voce a chi aveva vissuto la tragedia disumanizzante della guerra: il saggio raggruppa in blocchi tematici frammenti di interviste e testimonianze di donne che, dopo quarant’anni, hanno trovato la forza e la voglia di ricostruire quei momenti rendendoci conto della violenza, soprattutto psicologica, che hanno dovuto superare. Non c’era alternativa, così come non c’è alternativa quando si vuole capire davvero la guerra se non mettendone a nudo le contraddizioni e la crudeltà. “L’argomento del mio libro non è la guerra, ma la persona nella scuola. Non scrivo una storia della guerra, ma una storia dei sentimenti. Sono uno storico dell’anima”. Raccontato in modo crudo e diretto, il saggio non intende indugiare sui particolari per voyeurismo o piacere, ma per dovere di cronaca. Perché capire la guerra dovrebbe aiutarci ad evitarla.