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La legge della fiducia

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Tommaso Greco, professore ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, dove è anche direttore del Centro Interdipartimentale di Bioetica, definisce “sfiduciario” il modello teorico improntato all’idea che il diritto serva a orientare i comportamenti sociali mediante l’uso della coercizione. Questo “modello sfiduciario” affonda le proprie radici nel “machiavellismo giuridico” e attraversa la storia della cultura giuridica e filosofica fino ai nostri giorni. Machiavelli ritiene che il tratto saliente degli esseri umani sia la «malignità dell’animo»; e questa convinzione è il perno di tutte quelle teorie generali del diritto per le quali la coazione è la quintessenza del fenomeno giuridico. Greco offre ai suoi lettori una prospettiva differente. Lo fa con rigore accademico ma ricorrendo a esempi tratti dal cinema e dalla letteratura; in adesione a quell’approccio multidisciplinare che associa “Law and Humanities” anche (ma non solo) per illustrare l’affresco giuridico di cui le nostre vite sono parte. La tesi proposta dal saggio vede «l’origine della obbligatorietà […] nella esistenza della norma che definisce gli obblighi dei soggetti intorno a una relazione». Una relazione basata sull’affidamento di ciascuno nella cooperazione dell’altro; in una prospettiva orizzontale e solidaristica dell’esperienza giuridica, nella quale la fiducia reciproca è il collante della convivenza. Il saggio ci induce a guardare tra le pieghe dell’ordinamento: la dinamica verticale del diritto, che attiene all’esercizio del potere punitivo, è un momento necessario e fisiologico dell’esperienza giuridica, eppure risulta inadeguata a rappresentare le ragioni per le quali gli esseri umani decidono di convivere giuridicamente. In questa prospettiva, il diritto è una regola dell’agire, non solo e non tanto una regola del decidere e del punire; una regola dell’agire, radicata nella fiducia, che orienta i comportamenti di ognuno e condiziona le aspettative sul comportamento che ciascuno si aspetta dagli altri. In quanto regola dell’agire, nel paradigma fiduciario, il diritto sembra essere una manifestazione (formalizzata) di “saggezza pratica” (quella che Aristotele chiamava phronesis) e attiene alla visuale etica dell’essere umano. Non a caso, l’analisi compiuta nel saggio individua l’elemento fiduciario che pervade l’ordinamento, in particolare, nelle cosiddette ‘clausole elastiche’ (come la correttezza oggettiva o buona fede) e nei principi (come quello costituzionale di solidarietà); e, dunque, in regole che hanno una forte componente valoriale…

Tommaso Greco ribadisce che il suo modello rimane negli argini del normativismo e che non riduce la giuridicità a un fatto di “coscienza”; e ciò, forse, per evitare il rischio che il paradigma fiduciario sia inteso come rappresentazione di un dover essere del diritto, radicato in una dimensione (in qualche modo) trascendente e relativista. Ma se per etica si intende - come dovrebbe essere per distinguerla dalla morale e dai moralismi - l’insieme di quelle regole dell’agire, ritenute virtuose proprio perché volte alla cooperazione solidaristica e al benessere degli esseri umani; se partissimo proprio da presupposto, farebbe davvero così male all’ordinamento giuridico prendere atto che il diritto è maturato e matura nella coscienza degli uomini? I giuristi (e il legislatore), sotto questo profilo, avrebbero il compito, sì, di ‘inventare il diritto” ma nel significato latino di inventio. Come ci ricorda il compianto Paolo Grossi, insigne giurista e Maestro di Tommaso Greco, il termine latino ‘inventio’ serve a mettere a fuoco l’attività del ‘cercare’ e del ‘trovare’. E il miglior posto in cui “cercare” e “trovare” il diritto, forse, è proprio la coscienza. Le neuroscienze hanno ormai confermato l’ipotesi (originariamente formulata da Noam Chomsky) che il nostro cervello abbia un sistema innato di codifica del linguaggio: una sorta di software precaricato che si adatta a ogni lingua perché ne riconosce la struttura essenziale. Allo stesso modo, i neuroscienziati ritengono che il nostro cervello contenga un analogo sistema di codifica delle regole etiche di base (interessanti sono gli studi di Michael Tomasello). Anche gli antropologi, d’altronde, sono ormai convinti che l’homo sapiens sia prevalso sugli altri ominidi in seguito a una vera e propria “rivoluzione cognitiva”. Circa settantamila anni fa, la nostra specie avrebbe acquisito la capacità di elaborare un pensiero astratto, grazie al quale concepire sistemi sociali cooperativi, organizzati sulla base di regole condivise ed espresse attraverso il linguaggio. Linguaggio e diritto, dunque, sarebbero nati sostanzialmente insieme per soddisfare una medesima esigenza: facilitare la cooperazione tra soggetti che si affidano gli uni agli altri perché si reputano simili. E questa contestualità di nascita avrebbe lasciato tracce visibili nella nostra architettura neurale. La componente verticale del diritto si sarebbe consolidata, invece, gradualmente a partire dalla “rivoluzione agricola” (circa diecimila anni fa) e sarebbe servita per difendere quel consesso di soggetti (che si reputano simili) dalle aggressioni esterne oppure dall’erosione interna delle regole condivise dell’agire. Il fenomeno giuridico nel suo complesso, dunque, pare avere una duplice connotazione: il ‘potere’ e il “diritto”. Quest’ultimo, la cui natura orizzontale si nutre di relazioni paritarie, non può fare a meno della fiducia; il potere, nato per esercitare l’attività difensiva e punitiva, non può fare a meno della coercizione. Ma è al diritto che spetta la primogenitura.