
Seduto nel salotto di Robert, Mattia osserva l’uomo sedutogli di fronte. Mani così bianche e così curate non ne ha mai viste, non in uomini dell’età di Robert Ostenberg. Nonostante sia arrivato a Parigi da qualche giorno, ha aspettato a chiamarlo; non perché non volesse vederlo, anzi, quanto piuttosto per prepararsi al meglio a quell’incontro. Per essere in grado di riuscire ad assorbire tutto da quell’uomo “testimone di un mondo ormai scomparso” e “superstite di una civiltà inabissata, quella dei grandi collezionisti come Alphonse Kann o Jacques Doucet, e la sua casa fortilizio fuori dal tempo che lo difende dalla bruttura del presente”. Mentre aspetta che venga servito il thè, Mattia scorre con lo sguardo il salone pieno di opere d’arte e pensa alla vita dell’uomo seduto sul divano. Aveva appena vent’anni quando, il 14 giugno del 1940, i nazisti entrarono trionfalmente a Parigi. Otto mesi prima la sua famiglia aveva lasciato la capitale francese per la Svezia, ma lui aveva scelto di rimanere. Una decisione menzionata da Robert pubblicamente durante la cerimonia per il conferimento della Gran Croce della Legion d’Onore e mai più citata, neanche durante i loro incontri privati. Un flusso di pensieri che viene interrotto proprio da Robert che, con un cenno della testa e un sorriso abbozzato gli chiede un parere sulla sua ultima novità. Un quadro di dimensioni medie, completamente nero con al centro una minuscola fessura gialla. “Vai, guardalo da vicino” dice “La Luce del Regno. Si chiama così. E la storia di questo quadro è un piccolo romanzo”...
Saggista e studioso, Niram Ferretti esordisce nel mondo della narrativa con questo La luce del Regno. Protagonista Mattia Almiti, professore di storia dell’arte che, arrivato all’età fatidica dei cinquant’anni, si ritrova a ripercorrere la sua vita e a farne un bilancio. A tratteggiare il filo conduttore dell’intera narrazione, il senso di perdita e di dolore: da quello provato (o forse non provato) per la morte del fratello Nathan; quello arrivato dopo la morte dell’amata zia Cleo; quello per il fallimento del matrimonio con Solange e quello – straziante - per la perdita di Yannis. Un affresco malinconico arricchito non soltanto dalle numerose citazioni di opere d’arte e letterarie, ma anche dalla assenza completa di vittimismo o indulgenza nei propri confronti; con una narrazione intervallata dai ricordi del protagonista (resi su carta dal corsivo e che vanno avanti come un racconto a sé stesso), Ferretti compie l’impresa di restituire la sensazione di scoprire man mano un’opera d’arte, nella quale ogni piccolo dettaglio – per quanto estraneo ad altri elementi, a prima vista – è fondamentale per la costruzione del senso generale. Così come accade nel quadro che dà il titolo al romanzo, dove il senso viene fornito dall’unico spicchio colorato presente, anche nella vita di Mattia l’arte - insieme alla fede ebraica - rappresenta quel fascio di luce in grado di penetrare l’oscurità del dolore e fornire una consolazione (e forse anche una guida) per un percorso di consolazione e salvezza.