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La luce dell’equatore

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Sono gli anni Sessanta e Alessandro, nonostante la sua giovane e spensierata età, sente la stanchezza. La prova in ogni sua giornata vuota nel paesino di Roasio, ricco di niente. Nessun lavoro che consenta alla sua famiglia di vivere con dignità. I suoi fratelli maggiori, partiti per l’Africa in cerca di un’occupazione, hanno lasciato a lui l’arduo compito di occuparsi della famiglia. Alessandro, tuttavia, non ne è in grado. È una famiglia in ogni caso la loro e devono essere, pertanto, uniti. È con queste motivazioni, unito alla curiosità che un ragazzo appena ventenne nutre per il mondo, a spingerlo verso Marsiglia e salire a bordo della nave che lo porterà in Africa in cerca di risposte. La sorte di chi resta, tuttavia, è ancor più dolorosa. Maria, l’unica sorella, è straziata dal dolore di veder partire il suo terzo fratello. Quello a cui era maggiormente legata. Non ci sarà al suo matrimonio o alla nascita del suo primo figlio. Non sarà presente quando le sue mansioni di figlia, madre e moglie diventeranno opprimenti e le leveranno il sonno. Rosa, la madre, incolpa l’Africa di averle rubato tre figli. Tre parti di sé stessa. Tutto ciò che di loro resta sono lettere ingiallite dagli anni. È insieme ad esse che vuole essere sepolta alla fine dei suoi giorni. Le lettere più dolorose, tuttavia, sono quelle mai ricevute. Il padre, come capofamiglia, è colui che prova il dolore più logorante. Il suo soffrire è duro, silenzioso e nascosto. Proprio come i difficili anni del dopoguerra impongono agli uomini forti. C’è poi Teresa. La bella Teresa che Alessandro un giorno avrebbe voluto sposare. La ricorderà per sempre allontanarsi di spalle, tra le lacrime amare di chi non vedrà più la persona amata. La nave tuttavia la aspetta. Il blu del Mar Mediterraneo si fa sempre più intenso. L’aria è sempre più calda. Odore di zenzero, cannella, mirra, legno bruciato, pelle d’uomo scaldata dal sole cocente, cuoio. L’Africa si staglia davanti ai suoi occhi…

Dopo Un giorno alla volta Andrea Cantone torna con un nuovo scorcio sulla storia recente del nostro Paese: ne La luce dell’equatore ci troviamo a Roasio, in Piemonte, negli anni del dopoguerra. L’opera comunica un grande insegnamento: le storie migliori sono quelle della gente comune. Coloro che non hanno cambiato il mondo e non avevano nessuna intenzione di farlo. È infatti con il ritrovamento di alcune vecchie foto di famiglia che Andrea viene a conoscenza della storia dello zio, emigrato in Africa in cerca dei fratelli. La storia non poteva restare nel silenzio. Non perché fosse strabiliante, ma bensì perché essa è la memoria di un’intera generazione di italiani. La mancanza di ciò che si lascia, sostituita dalla paura dell’ignoto verso il quale si prosegue, è perfettamente rappresentata all’interno del romanzo. Ad arricchire la narrazione sono i riferimenti sensoriali. Spesso il gusto, la vista e l’olfatto vengono utilizzati con maestria per trasmettere il concetto di viaggio, di diversità e di un mondo nuovo. Le tinte e gli aromi africani sono ben diversi da quelli a cui siamo abituati. Tra le pagine, tale differenza diventa oggetto di meraviglia anziché di distanza e spavento. I flussi migratori del dopoguerra miravano a garantire alle famiglie italiane una condizione di vita migliore e, per questo, i figli partivano verso mete lontane con la speranza di guadagnare qualcosa da poter donare ai genitori e ai fratelli e sorelle minori. Tuttavia, la visione offerta dà una chiave di lettura più intima. Alessandro non cerca solo un lavoro. Sa che sulle coste del continente Africano può non trovare la fortuna che spera. Eppure sente un’unica certezza. L’equatore e la sua calda luce gli permetteranno di illuminare la rotta più importante da percorrere: quella alla scoperta di sé stesso.