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La Luce di Akbar

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Nella seconda metà del XVI secolo, sotto la luce del Re dei Re, Akbar, l’Impero Moghul gode del suo massimo splendore. In pochi anni è stata tirata su la nuova capitale, Fatehpur-Sikri, costruita in onore del primogenito Salim, la quale brulica di artisti, cortigiani, mercanti, filosofi e teologi di tutto il mondo. L’impero continua ad espandersi con missioni militari di conquista e consolidamento in Afghanistan, nel Deccan, nel Bengala e nel Kashmir. Il Gran Mogol, che molti sostengono essere addirittura analfabeta, è impegnato nelle riforme amministrative con le quali cerca di distribuire un equo benessere a tutti i suoi sudditi. Ma la corte è percorsa da profonde tensioni. I tre figli di Akbar si contendono aspramente e violentemente la successione dinastica, mentre le innovazioni in campo religioso sostenute dal sovrano creano risentimenti. Akbar sa di governare su un impero che accoglie in sé genti di varie religioni: la sua corte è musulmana, sunnita, ma ad ovest non mancano gli sciiti e gli zoroastriani, così come gli indù ovviamente, e i cristiani che dalla loro base di Goa procedono all’evangelizzazione dell’India e ripetutamente cercano di convertirlo al cristianesimo. Akbar riunisce nella Casa del Culto saggi e teologi da ogni religione, convinto che dalle loro appassionate e dotte discussioni possa emergere la via unica al tutto, il credo che tutti gli altri riunisca e concili, accomunando nella diversità. Questo sincretismo religioso che accoglie qualche elemento da ogni percorso religioso, finisce alla fine per scontentare tutti, a partire dai rigidi ulema sunniti. I malcontenti delle caste sacerdotali si intrecciano alle lotte per la successione al trono. Nelle pagine di apertura del romanzo Akbar proclamerà la sua infallibilità in materia di religione e fonderà un proprio culto destinato a non lasciare gran traccia di sé…

Ci conduce in questa esplorazione della corte del Gran Mogol un giovane pittore di nome Samir. Egli è in qualche modo interno ed esterno alla corte stessa. La sua possibilità di accesso è vincolata ai capricci del sultano e futuro re Salim, che condivide con lui la passione per la pittura. Samir è il personaggio guida del romanzo e il suo narratore; attraverso i suoi occhi e le sue parole siamo condotti all’interno delle furenti dispute teologiche fra ulema sunniti e missionari gesuiti, le quali occupano i pomeriggi Akbar. È questo un romanzo per lo più di dialoghi, pertanto a modo suo estremamente teatrale. Solo alcune rare interpolazioni di un narratore onnisciente ci forniscono informazioni di contesto e passaggi di collegamento. Altrimenti assistiamo ai discorsi, alle sagaci e pungenti battute, ai confronti accesi che si scambiano i cortigiani, tessendo ognuno il filo segreto della propria trama che mescola considerazioni teologiche a ben più mondani calcoli d’interesse. Ne emerge un affresco storico efficace, più che una trama avvincente; un quadro curato nei dettagli, che ha il grande merito di saper filtrare e restituire l’erudizione teologica, storica e filosofica attraverso dialoghi incisivi e sostenuti da un buon ritmo. Fra i tanti personaggi brilla, come da titolo, il Gran Mogol Akbar (protagonista qualche anno fa anche di un romanzo di Salman Rushdie, L’incantatrice di Firenze - Mondadori, 2009): quasi novello Salomone o versione orientale di un Federico II, teso e in fondo sconfitto in questa spinta sincretica e multiculturale, volta a trovare l’unità dell’umanità, la chiave olistica che ci chiude tutti nello stesso cerchio.