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La madrivora

lamadrivora

Temperley, provincia di Buenos Aires, 1907. Il dottor Quintana lavora nel sanatorio della città a pochi chilometri dalla capitale e si occupa delle guardie notturne da un anno; una situazione abbastanza tranquilla, dal momento che il picco di attività si registra di giorno con una media di trenta pazienti di cui prendersi cura. E così il giovane dottore può dedicarsi con serenità alla sua paziente Silvia, convinta che ad ogni parola che pronuncia una mosca le esca dalla bocca; perché l’abbiano assegnata a lui, Quintana non se lo spiega, visto che non è uno psichiatra. Però ha tempo, il dottore, per guardare a lungo fuori dalla finestra, dove una fila di formiche ogni giorno esce da una crepa sul muro e avanza delimitando un ampio cerchio e poi all’interno, fino a creare una macchia scura. Ha anche tempo per parlare con i colleghi, come il dottor Papini che si infervora su riflessioni strane, quali la questione delle donne che si chiudono in bagno e usano il bidè per lungo tempo, o quella che riguarda certi uomini capaci di mettere in atto il giorno dopo cose che pianificano di notte, al contrario degli altri, come loro, che invece “Di notte elaboriamo piani arditi che potrebbero farci completamente svoltare. Ma al levare del sole i piani svaniscono e si torna ad essere i mediocri di sempre che si ostinano a rovinarsi la vita”. Spesso, poi, Quintana indugia a guardare la signorina Menéndez, la bella caposala efficiente e intrigante, della quale ha scoperto che vive in una stanza del sanatorio e che ci sono altri suoi colleghi innamorati di lei. Mentre medita su come invitarla ad uscire, si dice che vorrebbe tanto sapere altro di lei e pensa “La guardo più che posso per rintracciare un suo gesto privato, un segreto, un’imperfezione”. Un giorno, il direttore dottor Ledesma convoca tutti i dottori nella sua stanza, insieme all’amministratore americano Mr Allomby dal quale dipende lo stipendio di tutti, e li fa assistere alla decapitazione di un’anatra, per mezzo di una scatola di legno che ha un coperchio con un foro e una lama che scatta in orizzontale. Ledesma rivela di aver condotto, su suggerimento di Mr Allomby, uno studio sulla ghigliottina, durante il quale ha scoperto che la testa, separata dal tronco, rimane cosciente e in pieno uso delle sue facoltà per nove secondi. In conclusione li mette a parte della proposta, ricevuta dall’amministratore, di realizzare un esperimento che verrà ripagato profumatamente: selezionare pazienti terminali, tagliare loro la testa senza danneggiare l’apparato fonatorio, chiedere alla testa di riferire a voce alta cosa prova. Sarebbe una scoperta grandiosa! E non ci sono forse lì, nel sanatorio di Temperley, tanti malati di cancro ormai vicini alla morte, attirati in maniera truffaldina dal promesso trattamento miracoloso?

Il romanzo di esordio di Roque Larraquy – scrittore, sceneggiatore, professore di design audiovisivo, considerato tra le figure più originali della scena letteraria argentina contemporanea, dotato di una immaginazione straordinaria e inquietante – è in realtà diviso in due parti apparentemente indipendenti. La prima storia è ambientata nel 1907 in un sanatorio argentino ed è raccontata in prima persona da uno dei dottori che ci lavorano, convolto in un progetto che prevede macabri esperimenti su pazienti terminali (già vittime di un orribile inganno) per esplorare il confine tra vita e morte. Prima che la narrazione abbia inizio, al lettore si presenta la riproduzione di una pagina della rivista “Caras y Caretas” n° 457 del luglio 1907 che pubblicizza una cura sperimentale per il cancro spacciata come miracolosa; si tratta di una prestigiosa rivista vera nella quale l’autore si è imbattuto a suo tempo. Tuttavia, ha raccontato Larraquy, “la prima scintilla di interesse è nata dal mondo dell’arte contemporanea tra il XX e il XXI secolo, ovvero ciò che ispira la seconda parte”. Ha poi cominciato ad interessarsi di frenologia, mesmerismo, alienismo, medicina galvanica, spiritualismo, “discipline del XIX secolo che si sono dissolte nel XX perché non si adattavano ai nuovi paradigmi scientifici”, oltre a dedicarsi ad autori che gli sono stati di ispirazione quali Jonathan Swift, Marcel Schwob, Rabelais. La seconda parte è ambientata nel Buenos Aires del 2009 e il protagonista è un artista omosessuale e obeso che racconta la sua storia di ex bambino prodigio con straordinarie capacità nel campo nel disegno che, crescendo, si è dedicato alla ricerca di maniere espressive capaci di superare qualunque limite, attraverso esperienze estreme, fino ad arrivare ad installazioni macabre che prevedono la creazione di essere mostruosi, utilizzando parti di corpi sottratti ad un obitorio e addirittura parti del suo stesso corpo, al fine di dimostrare che per l’artista è possibile avere il controllo dei sentimenti ma anche dei movimenti del corpo. “Volevo scrivere un romanzo in due parti, cucire insieme due diversi materiali narrativi e costringerli a convivere in modo reciprocamente parassitario”, ed è proprio così che esse appaiono al lettore. La madrivora arriva in Italia nel 2022 ma Roque Larraque lo ha scritto dieci anni fa e ha continuato a lavorarci, soprattutto collaborando con i traduttori nei passaggi in altre lingue; per inciso, l’edizione inglese è stata semifinalista al National Book Award for Translation Literature 2018 e ha ricevuto ovunque il plauso della critica. Non deve essere stato semplice mantenere intatta nelle traduzioni la scrittura scarna, asciutta ed evocativa, ironica, caustica e irriverente di un romanzo perturbante che esplora il limen, fino all’orrore, sia nella parte in cui medici visionari (o ciarlatani amorali?) indagano il confine tra la vita e la morte, sia in quella in cui un artista, oggetto e soggetto della propria arte, concepisce installazioni raccapriccianti per trasformare il corpo in arte e sondare il limite, appunto, della ricerca estetica. Fin dove ci si può spingere nella scienza e nella creatività artistica? Ecco che le due storie paradossali trovano un approdo comune nella riflessione sull’arroganza del progresso scientifico e sulla presunzione (non è la hybris classica che ancora prima fu il peccato di Adamo?), destinata al fallimento, di controllare la natura sostituendosi al suo Creatore ma anche nella riflessione sugli eccessi della spettacolarizzazione dell’arte. In questo romanzo sui generis, difficile da categorizzare, inquietante e stravagante, le due storie appaiono legate anche da fili riconoscibili come tracce: larve capaci di divorare rapidamente gli esseri viventi, rane metalliche che sono giocattoli per bambini ciechi, formiche che descrivono cerchi quasi perfetti. Ma soprattutto la madrivora del titolo, una pianta dalle foglie aghiformi, “la cui linfa produce (in un salto tassonomico poco approfondito) microscopiche larve animali. Le larve hanno il compito di divorare il vegetale fino a inaridirlo completamente. I resti si disperdono e fecondano il terreno, riavviando così il processo”. Una pianta che in natura non esiste, inventata – ha detto l’autore – come “metafora dell’anelito logorante dei protagonisti disposti a sacrificarsi per realizzare il proprio desiderio di porsi al di sopra della morte, di Dio e del creato”. Larraquy ha spiegato benissimo il senso di questo libro, ”Ero interessato a esplorare i campi di scienza e arte, cucite assieme dal rapporto tra i corpi e la trasmissione del sapere. Nelle mie intenzioni la prima parte mette in discussione l’idea positivista della scienza alla fine del XVIII sec. incentrata sulla superiorità del progresso dell’uomo sulla natura. La seconda su una idea di arte contemporanea che mette la corporeità al centro e vuole dimostrare come il proprio corpo possa superare i confini tra finzione e realtà. Due facce della stessa questione: il tentativo di realizzare un’opera d’arte totale, in cui il corpo diventa strumento stesso di controllo della natura”. Molto interessante anche quello che ha detto a proposito del titolo originale, che si attaglia perfettamente anche a quello italiano che lo ricalca, “La parola non esiste in spagnolo ma si riferisce, letteralmente, all’idea di ‘mangiare la madre’. Mi interessava questa idea come risonanza dell’idea ‘autofagica’ del testo. Temevo che la parola potesse essere interpretata in senso psicanalitico, soprattutto in città come Buenos Aires, che ha il maggior numero di psicologi per abitanti al mondo (ndr. suo padre è psichiatra e suo fratello psicologo); ecco perché il titolo in spagnolo ha l’articolo ‘la’ (La comemadre) che porta il termine ad essere una cosa, un oggetto, un materiale”. Una ultima osservazione per sottolineare quanto il perturbante, celato dietro l’ironia, di questo romanzo si nasconda in realtà nella scoperta inquietante, è stato detto, che la nostra moralità è più flessibile di quello che ci piace credere. Ci si ritrova, infatti, a condannare ma anche a desiderare fortemente di scoprire se esiste la rivelazione, la risposta alla domanda che si pongono i medici e l’artista protagonisti di questo romanzo. È più forte l’orrore o la curiosità? Difficile rispondere con serena sincerità.