
“Meretrice”, “puttana”, “bordellaia”, “bagascia” sono alcuni degli epiteti con cui venivano chiamate le prostitute nel Medioevo. Se indicano tecnicamente la professione – vendere o prestare il proprio corpo – esprimono pure un giudizio morale ingiurioso inappellabile. Eppure, nonostante riprovazioni di ordine etico e restrizioni legislative, il “mestiere più vecchio del mondo” non è mai stato messo al bando, né dalla Chiesa che lo considerava valvola di sfogo della lascivia maschile e utile strumento per preservare la virtù delle donne dabbene, e nemmeno dal potere politico ai cui occhi svolgeva una funzione sociale essenziale, ostacolare la barbara usanza dello stupro, inteso come iniziazione sessuale del giovane, e contenere i disordini dello spazio oscuro e criminoso delle taverne. I governanti giunsero addirittura, per motivi di lucro e di quiete pubblica, a istituzionalizzare il meretricio con l’introduzione dei postriboli. Il disciplinamento della professione non significa però per la prostituta maggior sicurezza e rispetto, al contrario la trasforma in “donna pubblica”, sottoposta a una marea di vincoli e divieti, e soprattutto la priva di quel poco di libertà che ancora possiede. Migliore, almeno in apparenza, è la situazione di quelle donne che esercitano privatamente nella riservatezza delle mura domestiche, le quali credono di poter tornare indietro in qualsiasi momento. Una probabilità che non si avvera quasi mai…
Ieri come oggi la prostituzione è sempre stata avvolta da una melmosa ambiguità, bollata di infamia ed esecrata ma comunque tollerata dalle autorità laiche e religiose. È quanto evidenzia Maria Serena Mazzi nell’analizzare con precisione l’universo dilaniante delle “femmine disoneste” del Medioevo, cercando di capire chi fossero e i motivi per i quali si dessero a una pratica così dura e abietta. Ogni aspetto di questa realtà sotterranea e bassa è ricostruito minuziosamente, dalla classificazione delle tipologie delle lavoratrici alle caratteristiche dei luoghi di attività (taverne, “stufe”, terme), dalle leggi che regolamentavano l’esistenza sociale delle mestieranti alla descrizione della loro misera quotidianità costellata da debiti, angherie, vergogne incancellabili. Dietro ai dati esposti affiora di continuo il lato umano delle “vittime” ridotte a corpi-oggetto o, come sentenziava Savonarola, a “pezzi di carne” buoni solo per soddisfare gli appetiti sessuali maschili o ad arricchire tenutari, conduttori e ruffiani. La mala vita è un testo di grande attualità, perché mostra come per la prostituzione dall’età medioevale ai giorni nostri poco o nulla sia cambiato. Sfruttamento, ricatto, schiavitù, spregio, rimangono purtroppo la condizione normale delle “male femmine” e confermano la triste verità che non è mai venuto meno nel corso dei secoli il perverso piacere di umiliare la dignità della donna.