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La malinconia del mammut

La malinconia del mammut

Il cratere da impatto giace sepolto sotto mille metri di sedimenti, ed ha il suo centro nei pressi del piccolo villaggio di Chicxulub, in Messico, da cui ha preso il nome. La dimostrazione della sua esistenza è arrivata solo nel 1991, ma quello che è stato denominato “l’evento di Chicxulub” è fissato nell’immaginario collettivo, e definisce il passaggio dal Mesozoico al Cenozoico: un asteroide di dieci o venti chilometri di diametro che precipita nelle acque di quello che ora è il Golfo del Messico e cambia la storia della vita sulla Terra: i maremoti che seguono alla caduta del corpo celeste devastano un intero emisfero, distruggono foreste fino a cento chilometri dalla fascia costiera. Le polveri sollevate oscurano il Sole per anni, gli incendi sviluppati bruciano interi continenti. La catastrofe dà il via alla quinta tra le estinzioni di massa che hanno segnato la storia della Terra, e provoca la fine dei dinosauri; solo un ramo di quella famiglia sopravvive, per giungere sino ai nostri tempi, diversificato in centinaia di specie diverse: gli uccelli. Da quel giorno sono trascorsi sessantasei milioni di anni. Se il genere umano ha mosso i primi passi, si è evoluto, è divenuto specie dominante sul nostro pianeta lo deve a quell’impatto. Ma da tempo ormai abbiamo prove inoppugnabili su una nuova estinzione di massa, ormai in corso. E noi ne siamo gli artefici: stiamo giocando il ruolo dell’asteroide nei confronti di migliaia di specie viventi con cui competiamo e che condanniamo direttamente o meno alla scomparsa. Possiamo fare qualcosa per fermare questo processo? La tendenza può essere invertita? Facendo ricorso alle tecniche sempre più avanzate di ingegneria genetica potremmo porre rimedio agli errori compiuti, e riportare in vita esseri già estinti, come i mammut?

“Il cibo che coltiviamo, alleviamo e peschiamo è la principale causa della sesta estinzione. Ci stiamo mangiando la Terra viva. Se la Morte è rappresentata come la signora con la falce, noi siamo le scimmie con la falce, che tagliando il grano portano con sé anche il resto dei viventi”. Già l’estinzione della megafauna del Pleistocene, di cui il mammut era illustre rappresentante, portava il marchio indelebile dell’opera dell’uomo: “… un gruppo di cacciatori del Paleolitico poteva tranquillamente ridurre del 10 per cento all’anno una popolazione locale di grandi prede. Un ritmo rapidissimo […] e insostenibile, nel giro di una o poche generazioni, per animali che procreavano poco e vivevano a lungo”. Massimo Sandal, classe 1981, ligure, divulgatore scientifico con un passato da ricercatore in biologia molecolare, scrive su riviste come “Le Scienze”, “Wired”, “Il Tascabile”. La malinconia del mammut non è semplicemente un saggio sull’estinzione: è un libro di scienza che appassiona come un romanzo. Grazie ad un rigoroso approccio che tocca aspetti biologici, storici, filosofici, psicologici, antropologici, l’autore accompagna il lettore in un viaggio attraverso le ere, analizzando le molteplici sfaccettature dei processi che portano sì al termine della vita delle specie, ma pongono anche le premesse per il rifiorire della biodiversità. Un percorso che si addentra nel tentativo di comprendere quel che siamo, specie senziente programmata, come ogni altra entità vivente, ad espandersi e replicarsi, a scapito delle altre, ma che ha più possibilità, più strumenti, più capacità distruttiva: l’estinzione di cui siamo artefici “è uno dei fenomeni che ci mette davanti alle nostre responsabilità, che ci fa prendere coscienza di come il nostro impatto sull’Universo può essere ed è irreversibile”. La chiusura è affidata all’affascinante e controverso tema della de-estinzione: riporteremo in vita i mammut? Forse sì, abbiamo le conoscenze che, prima o poi, potrebbero metterci nelle condizioni di farlo. E chissà, forse riusciremo a resuscitare quegli esseri carismatici, ma solo per metterli in un parco di divertimenti a tema, non troppo dissimile da quello immaginato da Michael Crichton nel suo Jurassic Park.