
Il telefono di Peter Maynard squilla durante un altro giorno di letture, di musica classica ma anche di quell’ulcera che lo costringe a bere litri di latte. Si tratta di un nuovo incarico, fornitogli dal suo collaboratore Lucky Cassino. Insieme, i due vanno a fare la conoscenza del ricco imprenditore T.R. Douglas, il quale, dopo anni di vane ricerche e di rancore accumulato, vuole vendicarsi per un fatto accaduto otto anni prima: la figlia Katie, dopo essere stata violentata da quattro uomini incluso il suo fidanzato, non si riprese più e alla fine, dopo un tentativo di suicidio interrotto dalle infermiere, riuscì a togliersi la vita buttandosi dalla finestra. Maynard deve trovare i quattro uomini e ucciderli. Ottantamila dollari il compenso: quattromila come anticipo e altri quattromila a lavoro terminato. Arrivano i soldi, per Maynard, e arrivano al momento giusto. Ma il suo compito si rivela più complicato del previsto. Uccidere quelle persone significa pestare i piedi al Sindacato della criminalità e rompere un equilibrio già abbastanza precario. Il Sindacato non sopporta Maynard e i suoi modi, non può accettare l’anarchia del sicario filosofo, il quale lavora da solo e si muove senza rispettare territori e padroni. Maynard, dal canto suo, non è certo intenzionato a obbedire, e il lavoro diventa presto la ricerca ossessiva della verità, tra New York, Frisco e il Messico, fino a quella odiosa città che è Chicago, la più odiosa di tutte…
Il portoghese Dinis Machado, all’epoca in cui lavorava per la casa editrice Ibis curando la collana di autori prevalentemente inglesi Rififi (anni ’70), ricevette dal suo editore la proposta di scrivere qualcosa di suo. Accettò, e scrisse le tre avventure di Maynard, il sicario dalla facile citazione letteraria, solitario, tormentato dall’ulcera e dai suoi pensieri. Considerato il pericolo della censura (molto attiva nel Portogallo di quegli anni, soprattutto nei confronti dei romanzi che non restituivano un’immagine ‘pulita’ del paese e delle sue città), Dinis Machado divenne Dennis Mcshade, e il Portogallo si tramutò nel territorio statunitense. Così l’opera uscì camuffata da un romanzo inglese hard-boiled tradotto in portoghese, non fu censurata ed ebbe il suo successo. Peter Maynard (che riprende il Pierre Manard autore e ri-scrittore del Don Chisciotte, di Jorge Louis Borges, in un’intrigante trama di doppi ben sottolineata nella postfazione al libro di Guia Boni) attrae, pagina dopo pagina: in mezzo ai luoghi patinati, ai gangster e alle pupe, alle esecuzioni e agli spostamenti/fughe, attendiamo telefonate risolutorie seguendo i ‘maledetti monologhi maynardiani’, ovvero i piccoli sguardi interni, sognanti ma cinici, ispirati ma disillusi, di ‘un animale notturno, vecchia talpa kafkiana, malato incurabile di se stesso’. Il principale pregio de La mano destra del diavolo è caratterizzare e legare bene il genere con questa dolce – e liquida, quasi - sospensione introspettiva.
Il portoghese Dinis Machado, all’epoca in cui lavorava per la casa editrice Ibis curando la collana di autori prevalentemente inglesi Rififi (anni ’70), ricevette dal suo editore la proposta di scrivere qualcosa di suo. Accettò, e scrisse le tre avventure di Maynard, il sicario dalla facile citazione letteraria, solitario, tormentato dall’ulcera e dai suoi pensieri. Considerato il pericolo della censura (molto attiva nel Portogallo di quegli anni, soprattutto nei confronti dei romanzi che non restituivano un’immagine ‘pulita’ del paese e delle sue città), Dinis Machado divenne Dennis Mcshade, e il Portogallo si tramutò nel territorio statunitense. Così l’opera uscì camuffata da un romanzo inglese hard-boiled tradotto in portoghese, non fu censurata ed ebbe il suo successo. Peter Maynard (che riprende il Pierre Manard autore e ri-scrittore del Don Chisciotte, di Jorge Louis Borges, in un’intrigante trama di doppi ben sottolineata nella postfazione al libro di Guia Boni) attrae, pagina dopo pagina: in mezzo ai luoghi patinati, ai gangster e alle pupe, alle esecuzioni e agli spostamenti/fughe, attendiamo telefonate risolutorie seguendo i ‘maledetti monologhi maynardiani’, ovvero i piccoli sguardi interni, sognanti ma cinici, ispirati ma disillusi, di ‘un animale notturno, vecchia talpa kafkiana, malato incurabile di se stesso’. Il principale pregio de La mano destra del diavolo è caratterizzare e legare bene il genere con questa dolce – e liquida, quasi - sospensione introspettiva.