
Fine anni ‘80. Infernominore, profondo sud. Guglielmo tira i pugni sul tavolo mentre sbraita e gastema tutti i santi che tiene a disposizione contro suo figlio Nuccio, reo di non riuscire a trovarsi un lavoro serio e assiduato. La madre impotente assiste al delirio del marito imbufalito dalla continua nullafacenza di quel figlio che proprio non ne vuol sapere di mettere la capa a posto, di andarsi a spaccare la schiena in qualche cantiere e diventare finalmente uomo. Ma Nuccio da quell’orecchio non ci sente proprio. La voglia di andarsi a rompere le ossa per poche lire come carpentiere non gli ingozza proprio. Così prima scappa in camera sua, poi capisce che ne ha abbastanza di quel tormento e prende un treno diretto a Capoluogo, lì dove ha deciso che partirà finalmente per il nord. Ma una volta giunto a destinazione e fermatosi in un bar per riordinare le idee, vede mestamente l’euforia sbiadire davanti al trascorrere delle ore. La mancanza di un piano serio per la fuga non gli lascia via di scampo. Così, verso sera, è costretto con la coda tra le gambe a richiamare il padre promettendogli che sì, un lavoro serio lo accetterà. Settimane dopo con la situazione immutata Guglielmo sul pullman che dall’ILVA lo riporta a casa, trova Nofrino Carretta, suo vecchio conoscente che pare abbia sistemato i suoi due figli come contoterzisti di Natalino Mannucci, il dio dei divani, uno che ultimamente sta sempre più sui giornali, uno che ha dato lavoro a tanti scansafatiche e perditempo come suo figlio Nuccio. Chi l’abbia aiutato in questa ascesa, quali santi in paradiso abbia smosso nessuno lo sa, ma al momento per Guglielmo quella sembra l’unica salvezza per sistemare finalmente il figlio. Carretta non gli garantisce niente ma alla fine si convince a dargli una possibilità. E così a 15 anni, il 15 agosto 1985, in piena festa patronale, Nuccio viene preso in prova da quei contoterzisti, scoprendo non solo che quel lavoro gli piace e che sta bruciando le tappe nell’apprenderne tutti i segreti, ma complice la conoscenza di Michele - un suo giovane collega con il quale ha iniziato un sodalizio non solo professionale - comincia a farsi balenare in testa una strana idea che lo proietterà ben presto ben al di là di quella piccola e gretta provincia pugliese...
Verrebbe da scompisciarsi dalle risate se non ci fosse da piangere leggendo il nuovo micidiale romanzo dell’altamurano Francesco Dezio, oramai vero e proprio guru della letteratura post-industriale. I suoi Nicola Rubino - dopo essere entrati in fabbrica, là dove vent’anni fa ancora era possibile scorgere un barlume di codici etici (più o meno) codificati, dove il dualismo seppur sbilanciato operaio/padrone aveva ancora un senso e conservava persino un barlume di umanità, dove la rete di protezione dei sindacati pur già languendo era ancora presente - sono ora finiti catapultati in un mondo del lavoro in cui la giumenta gravida del mercato selvaggio oramai inarrestabile tutto permea, avidamente travolge e loro stessi ingloba, convincendoli che il sogno della bella vita possa (magari scimmiottando e imitando i modelli malati e l’avidità di chi prima li sfruttava) finalmente trasformarli da comparse in attori protagonisti, affrancandoli da quel provincialismo grezzo, rozzo e maleodorante che si portano appiccicato addosso. Dezio dà vita a un romanzo polifonico, quasi una pièce teatrale, un’antica tragedia per struttura e dove si alternano via via le voci dei due protagonisti Nuccio e Michele, del Mercato, del re dei divani Mannucci, dei social, degli Influencer, degli Spin Doctor, dei C.E.O., delle rivista di tendenza e non, tutte voci disperate e disparate che si fondono però in un unico maleodorante coro fatto di bassezze e pornografia esistenziale, in nome di un unico e solo dio: il profitto, quella sfrenata voglia di successo vacuo da raggiungere ad ogni costo e con qualsiasi mezzo, spingendo ed esasperando il liberismo fino all’estremo, fagocitando l’etica stessa per poi soppiantarla. Un affresco della nostra agonizzante e decadente società non solo lavorativa che Dezio - con una lingua che mischia gergo dialettale, aziendale e linguaggio social - come al solito rende impietoso e corrosivo mettendolo a nudo, ma con il quale alla fine non si può che malinconicamente solidarizzare.