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“La mia follia mi ha salvato” - La follia e il matrimonio di Virginia Woolf

"La mia follia mi ha salvato" - La follia e il matrimonio di Virginia Woolf
Come può essere folle chi è capace di indagare a fondo l’animo umano? Come può esserlo chi del flusso di coscienza è riuscito a fare un’opera d’arte? Eppure è sotto queste sembianze che la storia ci ha consegnato Virginia Woolf. Profonda quanto disturbata, tormentata quanto capace; e poi l’anoressia, la depressione, le voci che diceva di sentire, il ricordo delle molestie subite da bambina. Fino alle sue tasche piene di pietre per raggiungere il fondo del fiume Ouse, vicino alla casa in cui si era ritirata per sfuggire al caos londinese. Tutto nella vita di questa scrittrice sembra confermare che genio e follia procedano di pari passo. Una biografia troppo appetibile e controversa perchè un illustre psichiatra di fama mondiale come Thomas Szasz se la lasciasse scappare. La sua opera principale, Il mito della Malattia Mentale, puntava a decostruire la rigidità e i manierismi della psichiatria così come la conosciamo; in questo nuovo libro viene fatto lo stesso con il luogo comune su Virginia Woolf, partendo da quello che lo studioso ha individuato come momento topico e rivelatore per le sue teorie: il suo matrimonio con Leonard Woolf, considerato dalla cronaca un marito premuroso e attento, e indicato come tale anche nell’ultima lettera che Virginia gli scrisse prima di suicidarsi...
Szasz individua in lui il passepartout che la scrittrice si era costruita per  proteggere la sua vita interiore e creativa dalle ingerenze di quella reale. A supporto di questa visione, il fatto che la Woolf accettasse quasi passivamente di sottoporsi a visite e cure psichiatriche, ostentando poi un supremo disprezzo per le stesse al riparo delle sue opere; al contrario, rifiutava e dileggiava le pratiche psicanalitiche, arrivando persino a negare di averne una conoscenza abbastanza approfondita, sebbene la sua casa editrice, la Hogarth Press, avesse pubblicato le opere di Freud. Trincerarsi dietro il fantasma di un disturbo esogeno e biologico semplicemente per evitare che qualcuno scavasse nella sua psiche? Szasz pensa di sì, e per convincere i suoi lettori opera una sistematica vivisezione non solo di fatti e opere della Woolf, ma anche di tutta quella letteratura, soprattutto psichiatrica, che sulla sua  presunta follia ha costruito la sua fortuna. L’analisi è spietata e metodica ed è interessante vedere un luminare, perfettamente padrone della materia, remare contro la sua stessa disciplina utilizzandone proprio i punti cardine e quelle che altrove sono date come certezze indubitabili. Il  tutto poi,  utilizzando un linguaggio sufficientemente accessibile e senza inutili paroloni o astruse teorie per addetti ai lavori: quasi perfetto, se non fosse che al lettore, un po’ di amaro in bocca, resta comunque. Perché alla fin fine, la  vita della grande scrittrice, passata sotto una lente di ingrandimento, ci appare sfuocata, stiracchiata, quasi banale, strattonata com’è tra un punto e l’altro della teoria di Szasz. E se è bello pensare che il genio possa essere finalmente scagionato dalla sua perenne simbiosi con la sregolatezza ed apprezzato per quello che è, è un po’ triste pensare a quanta poesia vada perduta quando la loro liason si rivela un prosaico, concretissimo alibi.