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La morte di Virgilio

La morte di Virgilio

19 avanti Cristo: costeggiando la costa calabra, sette navigli d’alto bordo procedono in fila, lentamente. Ad aprire e chiudere la processione due possenti navi militari: altre quattro trasportano il seguito dell’imperatore e al centro del convoglio – rilucente d’oro e con vele color porpora – c’è la galea di Ottaviano Augusto, proveniente dalla Grecia e diretto a Brundisium. A bordo di una delle navi del seguito dell’imperatore c’è un ospite illustre: è il poeta Publio Virgilio Marone, che ha lasciato Atene – dove si era illuso di riuscire a concludere il suo nuovo poema, l’ambiziosissima Eneide – per essere a Roma tra due giorni, in tempo per festeggiare il 43esimo compleanno dell’imperatore. Nonostante l’atmosfera festosa, Virgilio avverte su di sé l’ala della morte. Oppresso dal mal di mare e debolissimo, legato ad un giaciglio sul ponte della nave per non cadere, il poeta è tormentato dalla tosse nonostante l’aria di mare e ogni sera lo colgono un profondo spossamento e la febbre. “(…) Quasi umiliato per la sua impotenza, quasi esasperato per il suo destino”, osserva la linea della costa scorrere piano e pensa agli schiavi che remano incessantemente nel ventre umido e fetido di quella nave sfarzosa, mentre i membri del seguito di Augusto si ingozzano sul ponte, assistiti da giovani inservienti. La flottiglia imperiale ha raggiunto l’imboccatura del porto di Brundisium: sul molo c’è una folla festosa che acclama Ottaviano Augusto. Virgilio viene caricato su una lettiga e trasportato lungo strette viuzze verso il palazzo dove sarà alloggiato. Dove morirà, pensa cupo il poeta…

1938, Vienna. Hermann Broch è un ex ricco industriale, ebreo di nascita ma cattolico di confessione, che da qualche anno ha venduto tutto per dedicarsi alla sua passione, la letteratura. La sua esistenza viene travolta dall’Anschluss, l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista. Broch è rinchiuso in un carcere e precipita nella più cupa disperazione. Convinto di morire di lì a poco, vuole lasciare un testamento artistico e spirituale e decide di espandere un breve frammento che aveva dedicato a Virgilio nel 1937 fino a farne un romanzo. Sente simile a sé il poeta latino e decide quindi di narrarne l’ultima giornata di vita, raccontando in questo modo anche se stesso, le sue paure, le sue angosce, le sue riflessioni filosofiche. Il romanzo rimane incompiuto, poiché Broch per sua fortuna riesce grazie a delle amicizie influenti ad essere scarcerato e fugge prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti. Qui, a dar retta al traduttore e curatore Aurelio Ciacchi, “condusse a termine il suo romanzo, iniziato nella prigionia, soltanto per debito di gratitudine verso i generosi ammiratori ed amici trovati in America”. Per fortuna o per calcolo anche in questo caso sulle orme di Virgilio, che su richiesta dell’imperatore Augusto rinunciò a distruggere il manoscritto dell’Eneide che avrebbe voluto gettare nel fuoco. Il romanzo – che si svolge nell’arco di sole 18 ore – è concepito e scritto come un unico flusso di coscienza, avaro di fatti ma denso di pensieri. Un monologo interiore profondo ed elegante ma davvero ostico per il lettore e dalla lunghezza esagerata, diviso in quattro movimenti (acqua, fuoco, terra, etere) e raccontato solo incidentalmente in prosa, viste le molte caratteristiche che fanno pensare piuttosto alla poesia. Come se – sempre nelle parole di Aurelio Ciacchi – “Broch, partendo dal romanzo sperimentale dell’ultimo Ottocento, abbia voluto studiare sperimentalmente non più la realtà da rappresentare, ma le possibilità insite nel romanzo medesimo, facendo coincidere la struttura del romanzo con la struttura dell’anima”.