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La morte mi ama

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Alan Goombridge è il responsabile della piccola filiale della Anglian Victoria Bank di Childon. Con lui lavora soltanto la giovanissima Joyce Culver, che per pranzo esce dall’ufficio, anche su sollecitazione del signor Goombridge che invece resta seduto alla sua scrivania compiendo azioni non proprio legali. Apre infatti la cassaforte, della quale, oltre alla sua, conosce anche la combinazione che dovrebbe sapere soltanto la sua assistente, ma che le ha “estorto” con la battuta scherzosa che “le leggi sono fatte per non essere rispettate”. Goombridge toglie dalla cassaforte tremila sterline (mai un soldo di più), le mette nel cassetto della sua scrivania, si mette alcune mazzette in tasca, sogna. Già, sogna, perché non si permetterebbe mai di rubarle, soprattutto perché sarebbe subito individuabile. Anzi arrossisce solo all’idea di essere scoperto e si affretta a richiudere tutto in cassaforte, quando sente Joyce che rientra dal pranzo. C’è qualcosa che spiega il perché di tanti sogni di conquistarsi un anno di libertà. La situazione a casa sua, infatti, è pesante. Vive con la moglie Pam che dopo tanti anni lo chiama ancora in ufficio alla solita ora e come tutti i giorni gli chiede l’ora del suo rientro a casa e gli affida alcune commissioni. A casa, oltre lei, lo aspetta il padre di Pam, Wilfred Summit, chiamato in casa Pop, che Alan odia profondamente e per il quale ha trasformato il garage in camera-salotto, ragione per cui è costretto a tenere la macchina fuori. Alan e Pam hanno anche due figli, Christopher, un bel ragazzo di successo, egoista e dalle cattive maniere, ma “cocco di papà”, perché suo alleato nell’odio contro il suocero e Jillian, la ragazza che non è mai in casa. Dopo la cena si trovano tutti davanti alla tv. Il nipote prende in giro il nonno, tentando di mandarlo a dormire, il padre prova a leggere, ma è tacciato di maleducazione da suocero e moglie...

Ci vuole l’intero libro per scoprire gli esiti finali di una rapina in banca di cui sono molti i colpevoli, anche in termini di superficialità. Ed è come se l’evento rappresentasse un muro: di qua la morte sociale, al di là la vita; di qua la stanchezza di un’esistenza piatta, di là l’amore, per la prima volta l’amore vero; di qua la sregolatezza, di là l’ospedale e la salvezza sotto molti punti di vista. Di certo si tratta di un giallo sui generis, ricco di colpi di scena, ma soprattutto di grandi voli di fantasia, tra sfrontatezza giovanile e voglia di rivalsa della mezza età, a cui i libri hanno insegnato ben poco in termini di capacità di vivere, ma moltissimo per quanto riguarda i sogni. Interessante lo stile di Ruth Rendell e soprattutto questa sua capacità di tenere ancorati i lettori fino alla fine del libro, per un finale a sorpresa, quando ormai la situazione sembrava aver preso una strada ben precisa. I personaggi sono indubbiamente comuni, persone con vite abbastanza banali e fondamentalmente, almeno per qualcuno, nemmeno capaci di compiere atti criminali, tanto che la rapina sembra essere non per loro, dato che non riconoscono nemmeno una pistola vecchia, ma vera, da una giocattolo. Con una siffatta situazione, non deve sorprendere la meraviglia che suscita l’innamorarsi, lo scoprire finalmente che cosa si prova, a cominciare dalla condivisione di letture e citazioni dai classici. Per Alan si tratta di una condizione inesplorata prima, dato che la moglie ha tutt’altro genere di aspirazioni e propensioni. Unico difetto, se di difetto si può parlare e non certo a carico dell’autrice, una gran confusione tra i nomi, con Amorose che diventa spesso e volentieri Ambrose, mentre Alan a pagina 167 viene ribattezzato Alati (come se poi non bastasse che anche lui, protagonista della storia, aveva adottato un nome falso, Paul Browning, per sfuggire ai controlli)!