Salta al contenuto principale

La parrucchiera di Kabul

La parrucchiera di Kabul

Kabul, 2004. Nel salone di bellezza della giovane americana Deborah Rodriguez è un tripudio di ombretti, kohl, cerette, permanenti, manicure, colpi di sole e di qualsiasi tipo di artificio volto a esaltare la femminilità che accomuna tutte le donne da oriente a occidente, dal nord al sud del mondo. Oggi però è un giorno speciale, perché è il giorno della festa di fidanzamento della migliore amica afghana di Debbie, la ventenne Roshanna. Nonostante i vent’anni di differenza d’età e nonostante purtroppo la storia di Roshanna non sia più drammatica o più violenta delle storie di tante altre donne afghane, Debbie si è particolarmente affezionata a questa ragazza che si è diplomata nel 2003 proprio nella Kabul Beauty School, gestita per l’appunto da Deborah dal 2002 al 2007, grazie all’aiuto e ai fondi di diverse associazioni non governative. La Rodriguez giunge infatti in Afghanistan tramite un’organizzazione no profit neanche un anno dopo gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono, quasi inconsciamente in fuga dalla sua realtà famigliare che scatena in lei più paura degli attentati terroristici. Nonostante non sia né un medico né un’infermiera, Debbie non si dà per vinta e, spinta dalla voglia di aiutare le donne afghane, riesce ad aprire una scuola per parrucchiere ed estetiste, dando così modo alle sue allieve di imparare un mestiere che consenta loro almeno in parte di ritagliarsi uno spazio tutto per sé stesse (nei saloni di bellezza afghani l’ingresso agli uomini è infatti vietato), ma soprattutto di acquisire un minimo di indipendenza economica dai propri mariti...

Trattandosi di fatti realmente accaduti, la Rodriguez non poteva non raccontare la propria esperienza in Afghanistan in prima persona, offrendo continuamente il suo punto di vista occidentale sulle storie tragiche delle donne afghane, che Debbie cerca in tutti i modi di aiutare tenendo aperta la sua scuola e impiegandone tante anche nel suo salone. La sintassi è molto semplice, anche se questo è sicuramente dovuto anche alla fluidità della lingua inglese. Allo stesso modo, anche il lessico utilizzato si potrebbe considerare basico. Eppure, proprio la semplicità della sintassi e della semantica ben si sposano con l’ingenuità di Debbie che talvolta traspare proprio di fronte a quelle differenze culturali alle quali spesso non sappiamo come porci. Nonostante le storie di Topekai, Mina, Baseera si rassomiglino tristemente tutte nella secolare prevaricazione violenta dell’uomo sulla donna, lo sguardo di Deborah però è sempre personale, anche perché lei vorrebbe salvarle tutte, anche quelle che non vogliono essere salvate, anche quelle che si considerano già perdute. Pur tra mille peripezie burocratiche e un divario culturale che talvolta sembra insuperabile, grazie alla sua tenacia, Debbie riesce comunque ogni anno ad aprire la scuola e a diventare per tante donne afghane non solo un’insegnante, ma un’amica a cui confidarsi. Forse perché, nonostante le differenze culturali, Debbie condivide con queste donne molto di più di quanto lei stessa possa pensare. Forse proprio perché la prevaricazione dell’uomo sulla donna è un retaggio che ci portiamo avanti da millenni, forse perché la discriminazione di genere è la prima forma di disparità che sia mai esistita. La testimonianza della Rodriguez ci induce così a una profonda riflessione su quanta strada ci sia ancora da percorrere per giungere alla parità, invitandoci però, nel contempo, a continuare la lotta.