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La parte della memoria - Storia privata di Saverio Tutino

La parte della memoria - Storia privata di Saverio Tutino

Sulle tracce di una vita di un uomo attraverso le vite degli altri che lo hanno conosciuto. Ecco che il tempo non si regge sulla cronologia ma sul ricordo e allora il ricordo si fa dimensione e misura che definisce un chi, un quando e un come. La storia di Saverio può cominciare nel 1923, quando nasce a Milano, oppure che già è grandicello e suo zio Nino lo porta con sé sulle Dolomiti, a camminare, marciare e, in cima, gridare “abbasso il Duce”. O, ancora, potremmo darle un inizio dalla scelta di diventare partigiano perché “bisognava scegliere da che parte stare. Necessario farlo, direi ovvio” dice il fotografo Mario Dondero, ricordando il suo incontro con Saverio Tutino a Parigi. Anche lì un ennesimo inizio, iscritto al PCI e inviato giornalista in Francia durante la guerra con l’Algeria. La storia partigiana è un tempo lungo da ricordare e raccontare, un quasi eterno vagabondare tra la Valle d’Aosta e la zona di Domodossola. A Parigi ci va nel 1958 mandato da “l’Unità”, ma i suoi articoli, nei quali racconta l’atteggiamento ostile degli intellettuali francesi nei confronti della guerra in Algeria, non piacciono troppo al PCI francese. Ma a Saverio questo non interessa, perché “di fronte alla necessità del vero nulla è più importante.” E quando Parigi finisce comincia Cuba, a seguire la rivoluzione. Scrive dispacci vaghi, dall’Italia si lamentano. “Qui a Cuba continua a consumarsi qualcosa che è tra la tragedia e la rinascita. Si scuote un continente intero e l’isola è il suo cuore sepolto ma pulsante. La Storia qui è arrivata prima e a volte penso che sia già sfinita. Ho scritto apposta sfinita e non finita.” Dal giornale lo rivorrebbero in patria, Fidel Castro gli dice che non si troverà bene a Roma e di non dimenticare che Cuba è casa sua. Sembra un presagio. Gli anni Settanta sono quelli della Strategia della Tensione. Ecco un nuovo inizio: etichettato cospiratore rosso, ma che i terroristi rossi minacciano di morte...

Saverio Tutino, scomparso nel 2018, è una figura sfuggente che la scrittrice Stefania Marongiu insegue attraverso i racconti della figlia e di quanti lo hanno conosciuto. Un uomo curioso, alla perenne ricerca di un posto nel mondo, sempre irrequieto. Eppure non ha segreti ed è forse questo a spiazzare gli altri. Dichiarare di non averne significa sottintenderne l’esistenza, come a dire: ti mostro perché tu non veda. Vede gli uomini per quello che sono, cerca spasmodicamente le parole giuste per raccontarli e soffre quando non le trova. Del suo tempo dice: “Il male pare annidarsi in questi anni con una pervicacia assoluta. Il gusto per il male corrode questa terra. Non si manifesta, il male. Rimane chiuso da qualche parte e poi deborda dai tombini o viene portato nell’aria dalle folate di vento. Non sappiamo niente, non sapremo mai niente di quanto sta accadendo. E anche quando sapremo, dimenticheremo”. L’elenco dei nomi che lo hanno conosciuto è lungo e Stefania Marongiu entra ed esce dalla vita di Saverio Tutino come da dentro a un film. Si appassiona, si immerge e poi la vita dell’uomo che sta inseguendo le sfugge di nuovo per poi farsi ritrovare ancora in un altro luogo e un altro tempo. Non è certo per giudicare scelte di vita fatte o scritti pubblicati che questo libro è stato scritto. Forse, il suo senso sta nell’aver catturato, come dentro a un obiettivo fotografico, la forma di un uomo che sua figlia Barbara definisce come “un uomo dal senso del dovere molto forte, non so quanto imparato o quanto innato. Era una cosa molto sociale, non dovuta al fascismo ma dovuta all’epoca, anche i suoi coetanei erano così.” Personalità come quelle di Saverio Tutino sono destinate allo scontro con il sistema con il quale si rifiutano di conformarsi, a costo di venire sconfitti. Ma, come dice lui stesso, meglio un errore commesso con generoso slancio che cessare di lottare.