
Alicia Berenson aveva trentatré anni quando aveva ucciso Gabriel, che di anni ne aveva quarantaquattro ed era suo marito. Erano sposati da sette anni ed erano una bella coppia, entrambi artisti; lei pittrice talentuosa, lui noto fotografo di moda. Quella sera del 25 agosto di una estate afosa lui è tornato tardi dal lavoro e lei gli ha sparato cinque colpi di pistola – quella pistola di cui lui non si voleva disfare, perché diceva essere un ricordo, e che era motivo di frequenti discussioni tra loro due perché lei non avrebbe voluto vederla più in casa. La polizia aveva trovato lui legato ad una sedia, con un cavo avvolto intorno alle caviglie e ai polsi, la testa a ciondoloni da un lato, sul muro dietro frammenti di cranio, materia cerebrale, capelli e sangue. Accanto al camino, lì vicino, c’era Alicia, con il vestito bianco imbrattato di sangue e le vene dei polsi con tagli profondi e sanguinanti, ai suoi piedi un coltello. Lei era sopravvissuta ma da allora non ha più detto una parola, da allora “Alicia non parlò più”. Queste singolari circostanze presto avevano trasformato questo delitto in un giallo, un mistero cui giornali e immaginario collettivo si erano interessati con morbosa attenzione. Da allora sono passati sei anni e l’interesse nei confronti dell’assassina muta è scemato, anche da parte dei medici che inizialmente avevano fatto a gara per occuparsene. Tranne qualcuno che ha continuato a subirne il fascino oscuro. Theo Faber ha quarantadue anni e dice “Sono diventato psicologo perché ero nevrotico. È la verità, anche se non è ciò che ho dichiarato quando mi hanno fatto questa domanda al colloquio di lavoro”. Il lavoro in questione è un posto al Grove Hospital di Londra, l’istituto psichiatrico giudiziario dove Alicia Berenson è ricoverata senza che nessuno sia mai riuscito ad intaccare il suo silenzio ostinato e impenetrabile. Theo ha deciso di lasciare il suo posto al Broadmoor, nonostante la disapprovazione del suo primario che senza mezzi termini gli ha detto che sta commettendo un grosso errore, “un suicidio professionale” lo ha definito. Ma lui, nonostante i dubbi e il nervosismo, non ha potuto fare a meno di prendere quella decisione; e il motivo ha un nome e un cognome, Alicia Berenson. Il desiderio del giovane psichiatra forense è curarla, lui sa che può farlo, sa che può esserle d’aiuto, è convinto di riuscire lì dove tutti gli altri hanno fallito. “Senza voler sembrare presuntuoso, mi sentivo l’unica persona in grado di dare una mano ad Alicia Berenson”. Ma questo non lo ha confessato a nessuno, né al vecchio ex primario, né al primario di psicoterapia che incontra al Grove per il primo colloquio. Forse dipende dal suo passato, da quella ferita - mai sanata del tutto nonostante il percorso di terapia – che risale all’infanzia, ma “Qualcosa nella storia di Alicia mi toccava a livello personale: fin dall’inizio avevo provato per lei una profonda empatia”. Da dove cominciare, dunque? Sicuramente da quella che è stata l’ultima dichiarazione di Alicia, un quadro che aveva iniziato a dipingere dopo le dimissioni dall’ospedale, mentre era agli arresti domiciliari. Non mangiava, non dormiva, non parlava, dipingeva soltanto. Nel quadro si era ritratta nuda, con un pennello grondante sangue davanti ad una tela; in basso a sinistra il titolo dell’opera a lettere greche celesti: Alcesti, la protagonista di uno dei miti greci più drammatici e della omonima tragedia di Euripide che di lei dice: “Ma perché questa donna resta muta?”…
È interessante il romanzo d’esordio di Alex Michaelides, nato a Cipro nel 1977 da padre cipriota e madre inglese, autore di sceneggiature di numerosi film (alcuni anche famosi), dopo gli studi Letteratura inglese all’Università di Cambridge, Cinema all’American Film Institute di Los Angeles, Psicoterapia, e una esperienza lavorativa in una unità psichiatrica per adolescenti. Il cuore della storia è racchiuso nella citazione in esergo e in quella che precede la Prima parte. Quest’ultima è tratta da Introduzione alla psicoanalisi di Sigmund Freud e recita così: “Colui che ha occhi per vedere e orecchi per sentire deve convincersi che nessun mortale sa mantenere un segreto: se le sue labbra sono serrate parlerà con la punta delle dita, il suo tradirsi trasuderà da ogni poro”. Un vero e proprio viatico per ogni psicoterapeuta, questa frase, e anche il punto di partenza dell’analisi/indagine del protagonista che, per buona parte del romanzo, è l’io narrante della storia, lo psicologo Theo Faber che porta con sé un bagaglio pesante che comprende un passato dominato dall’ingombrante presenza paterna che lo ha ferito e umiliato fino al giorno in cui lui ha provato ad emanciparsi andandosene via e poi anche un presente complicato rappresentato dalla moglie Kathy, che doveva essere il suo riscatto nei confronti della vita e che invece concretizza un nuovo tradimento difficile da elaborare. Eppure è proprio questo bagaglio che nell’intreccio della storia, permette a Theo di avvicinare la paziente silenziosa, la quale, a sua volta, nella sua vita passata ha dovuto fare i conti con una madre morta in un incidente quando era bambina, un padre suicida e la depressione. In cosa consista questo legame che va ben al di là del transfert terapeutico è il nodo cruciale che soltanto il colpo di scena finale scioglie in maniera abbastanza sorprendente. L’altra citazione fondamentale è quella in esergo ed è tratta dall’Alcesti di Euripide, “Ma perché questa donna resta muta?”. Ecco, il silenzio. Forse il vero protagonista di questo romanzo. Il mito di cui narra la tragedia è uno dei più intensi del vasto repertorio greco classico. Il re Admeto, debitore nei confronti di Apollo, riceve dal dio la richiesta del sacrificio della vita – sua o di qualcuno disposto a prendere il suo posto - per ricambiare l’aiuto ricevuto. Il re non se la sente e chiede ai suoi genitori di sacrificarsi per lui ma loro rifiutano. Alcesti, sua moglie, si offre. Apparentemente il mito è a lieto fine, perché Eracle riconduce Alcesti dagli Inferi a suo marito; ma la donna è muta. Si è scritto tanto su questo mito, sull’amore di Alcesti e anche su questo silenzio; Michaelides lo sceglie come elemento cardine della sua storia. Perché Alicia dipinge un autoritratto e gli dà il nome dell’eroina greca? Cosa è successo davvero quella sera? E nel rapporto tra Theo Faber e Alicia, forse lui – nomen omen si è detto giustamente – ha il compito di riportarla indietro dal mondo del silenzio? Come e dove le storie del terapeuta e della paziente si intersecano? Chi manipola chi nel loro legame? A queste domande il lettore è chiamato a rispondere, fino a che l’ultima pagina mette il tassello finale ad un mosaico che finalmente si completa; ed è allora che ci si rende conto degli indizi disseminati lungo tutto il percorso e che rendono questo thriller psicologico dalle sfumature oscure abbastanza intrigante e ben architettato, nonostante non possa definirsi un capolavoro letterario a motivo di una scrittura fin troppo lineare e un approfondimento dei personaggi poi non così accurato. La paziente silenziosa è una storia vischiosa che cattura decisamente il lettore e quindi si spiega perché questa ottima lettura di intrattenimento, perfetta per qualche ora di lettura non impegnativa, sia diventato un caso letterario tradotto in quarantadue paesi. Al momento, inoltre, non si conoscono altri particolari ma si sa che saranno Annapurna Pictures e PlanB di Brad Pitt a portare sul grande schermo The Silent Patient.