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La peggio gioventù

La peggio gioventù

Roma, 1972. Quartiere di Tor Marancia. Un uomo sta camminando sul marciapiede del grande stradone alberato che divide la borgata che tutti chiamano “la piccola Shangai”. Ha i capelli impomatati all’indietro e cammina come John Wayne, sfrontato e sicuro di sé. Si chiama Sergio Maccarello ma tutti lo conoscono come “Er più de Tor Marancia”, a causa di quella storica vittoria del campionato regionale mediomassimi di pugilato, nel 1967, che lo ha consacrato a mito del quartiere. Poi ha lasciato la disciplina ed è diventato il capo indiscusso della zona, alla quale assicura la propria protezione con la sua batteria . Ora si sta dirigendo al bar tabaccheria di Italo Maurizi, dove lo aspettano gli amici di sempre. Nel frattempo anche una macchina, una fiat 125, si sta dirigendo nello stesso luogo. A bordo ci sono quattro giovani: Amleto, Albert il Marsigliese, Umbertino e Danilo. Anche quest’ultimo ha provato a fare pugilato, dato che suo padre Otello è stato un pugile apprezzato, poi ha lasciato perdere per darsi alla malavita. Tutti lo chiamano “Er Camaleonte” e fa parte, appunto, della batteria dei Camaleonti. È lì per un motivo preciso. È stato pestato selvaggiamente da Sergio a causa di uno sgarro fatto a Chiara, una ragazza conosciuta da Maccarello la sera della vittoria del campionato, e ora vuole fargliela pagare. Quando, giunti davanti al bar, i quattro scendono dall’auto, “Er più” riconosce subito Danilo, nonostante indossi una calzamaglia sul viso. Si mette in guardia, pronto a fare a pugni di nuovo, questa volta sul serio. È la resa dei conti. «Vie’ qua che te sfonno». Poi, i colpi di pistola…

Quattro personaggi. Quattro storie che si intrecciano. A fare da sfondo, la Roma a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, un periodo in cui la periferia era percepita come un’entità esterna, a parte, e netta era la differenza con il centro cittadino. La peggio gioventù di Francesco Crispino racconta la genesi della Banda della Magliana, come recita l’emblematico sottotitolo. Ma non è realmente così: in queste pagine non si troveranno il Freddo e il Libanese, personaggi portati alla ribalta dal magistrale Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo e ispirati dai fondatori della Banda, Franco Giuseppucci e Maurizio Abbatino. E se un giovanissimo Renatino De Pedis fa solo una piccola comparsa, i veri protagonisti di questo noir sono quattro ragazzi che vogliono evadere da una periferia che li soffoca; vogliono emergere, e per farlo utilizzano un solo linguaggio, l’unico che essi conoscono: quello della strada. Ci prova, Sergio Maccarello, a sfondare nello sport. Ma la strada è come una sirena omerica e lui non può fare altro che ascoltarne il richiamo. Così come Chiara, una ragazza come tante che ha l’unica colpa di essere una debole. Fabiana, invece, il cui personaggio prende spunto da Fabiola Moretti, debole non è e con la sua determinazione riuscirà a crearsi un proprio percorso deviato, che inizia con otto mesi di reclusione a “Regina Coeli”. E poi Danilo Abbruciati, il vero protagonista del romanzo, uno dei pilastri della Banda della Magliana, morto a Milano nel 1982 dopo il tentato omicidio di Roberto Rosone. A differenza del libro di De Cataldo, che segue passo passo l’evoluzione di quelli che saranno i padroni di Roma per circa un ventennio, Crispino si concentra sulle storie, sullo studio dei personaggi, delle loro dinamiche psicologiche. E con piglio antropologico e sociologico, l’autore racconta la storia di una trasformazione. Quella da una criminalità “romantica”, che non ammette che si spacci per le strade o che si tocchino le donne, il cui emblema risiede in Sergio “Er più,” ad una criminalità spietata, affamata, che non guarda in faccia a nessuno e risponde solo a colpi di sangue e piombo, incunabolo di quello che diventerà poi la Banda. E lo fa attraverso una scrittura mimetica, che alterna il romanesco imbastardito ed espressionistico delle strade a un ritmo narrativo eccellente, accompagnato da una costante colonna sonora dei tempi. Ma il lettore non si faccia ingannare: nella lettura de La peggio gioventù, non è allo scrittore-magistrato che deve guardare ma a Pasolini, fine osservatore della società di quegli anni. A tal punto che anche il titolo è mutuato da un articolo del poeta di Casarsa apparso nel 1975 dopo la messa in onda sulle reti Rai del suo Accattone. E tra “pippate” di cocaina, agguati, prime infiltrazioni mafiose nella Capitale, corse sfrenate in una Roma notturna e deserta, La peggio gioventù si rivela un romanzo che nella sua brevità di 168 pagine concentra un universo, lo spaccato di un’Italia che già in quegli anni si apprestava a vivere l’epoca delle sue più grandi trasformazioni sociali e culturali.