
La lotta al crimine non è solo una metafora ma anche e soprattutto una categoria che caratterizza il diritto penale. Più precisamente si parla di “guerra al crimine” come scopo del diritto e al fine di mutuare dalla dimensione bellica la legittimazione ad avvalersi di un armamentario per affrontare e annientare i nemici. L’idea della guerra alla criminalità rende, infatti, accettabile, implicandola, la costruzione della figura del nemico, cioè di colui che delinque e non accetta di vivere secondo le regole della società. Il nemico non è un avversario ma qualcuno da neutralizzare ed eliminare per liberare il mondo dalla sua pericolosa e antisociale presenza. Ma nella lotta al crimine si finisce spesso, Paesi così detti civili compresi, per dimenticare che dietro ogni reo si cela un essere umano e che il diritto non deve reiterare le antiche logiche della vendetta privata ma spezzare le catene di essa, attribuendo il giudizio sulle azioni delittuose commesse a un giudice terzo e imparziale e garantendo al condannato una pena umana, proporzionata e volta alla rieducazione. Recentemente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per aver rinnovato il regime del 41 bis a Bernardo Provenzano nonostante questi fosse gravemente malato così evidenziando come la civiltà di uno Stato si misura in relazione a come vengono trattati coloro che delinquono e che vengono condannati anche per gravi reati di mafia. Da diverso tempo è, infatti, in atto un fenomeno di abolizione generalizzata della pena di morte, sintomo di un’acquisita consapevolezza della dignità umana e dell’inammissibilità di sanzioni volte alla neutralizzazione del condannato. Nonostante ciò, molti Paesi continuano a prevedere sanzioni perpetue come appunto l’ergastolo così tradendo la stessa ratio ispiratrice dell’abolizione della pena di morte. E, infatti, si può neutralizzare un essere umano non solo privandolo della vita ma anche sottraendogli sine die la libertà nonché ogni possibilità di avere una vita di relazione…
È questo l’oggetto di indagine attorno al quale ruota La pena di morte viva, saggio di Elton Kalica, dottore di ricerca in Scienze sociali, interazioni, comunicazioni e costruzioni culturali presso l’Università di Padova nonché membro dell’Associazione “Antigone Veneto”. Con una scrittura scientifica e meticolosa ma allo stesso tempo agevolmente fruibile l’autore conduce il lettore attraverso la scoperta delle pieghe più recondite del diritto penitenziario segnando con precisione la distinzione tra il “diritto penale del fatto” dove a rilevare è la condotta antidoverosa tenuta dal soggetto e il “diritto penale dell’autore” dove ad essere incriminata non è tanto l’azione ma la personalità del soggetto. E ancora questo intenso saggio consente di formarsi un’idea precisa sul regime carcerario del 41 bis attraverso l’analisi dei fenomeni di vita carceraria da esso in un modo o nell’altro interessati quali la corrispondenza e le telefonate che possono essere intrattenute da un condannato sottoposto a tale regime, i colloqui, le restrizioni sul cibo e sull’ora d’aria. Ne emerge un quadro dove si fa sottilissima la linea di separazione tra completa eliminazione del condannato mediante pena di morte e annientamento dello stesso nonostante esso venga lasciato in vita. Un saggio, dunque, che tocca corde scoperte della civiltà della maggior parte degli Stati e che mostra come, nonostante tutto, il rispetto della dignità del condannato e l’emancipazione della giustizia da retaggi arcaici siano ancora una meta da conquistare.