
“La politica è schifosa e fa male alla pelle”, cantava Gaber in Io se fossi Dio. Lo sfogo del cantautore non risparmiava nessuno, definiva i politici brutti per natura, o comunque destinati a diventarlo perché corrotti dalla loro attività. Forse sperare ancora nella bellezza della politica in Italia è una vera e propria perversione, ma è sempre stato così? La politica è sempre stata l’ascensore sociale per arrivisti e ladri? La sfiducia degli elettori è sempre stata così massiccia, in un perpetuo “piove, governo ladro”? Il livello culturale è sempre stato così infimo? Gli intellettuali sono sempre stati dei megafoni umani a caccia di applausi e consensi facili o un tempo assolvevano a una funzione socialmente più elevata? Forse ci sono ancora personaggi per cui ancora oggi valga la pena appassionarsi alla politica, e c’erano ieri personaggi oscuri e discutibili che ci servono a smontare la mitizzazione della Prima Repubblica. Insomma, forse ci conviene convincerci che non siamo sempre stati un Paese così sprofondato nell’abisso, e che magari non siamo costretti a rimanerci per sempre…
Chi scrive questa recensione non è esattamente un fan del mito dell’età dell’oro, e non sposa il modo di vedere di chi ha il collo perennemente rivolto al passato in una adulazione acritica e spesso ingiustificata di tempi lontani; chi scrive, insomma, non è – per dirla alla latina – un laudator temporis acti. Ha poco senso intonare la litania che vorrebbe la nostra età come quella della decadenza, per molteplici ragioni che dovrebbero rendere preferibile il presente. Questa premessa, che rischia di portarci fuori tema, è per dire che no, non sono del partito del “si stava meglio prima”, come sembrerebbe essere invece Andrea Scanzi. Il giornalista aretino de “Il Fatto Quotidiano” però ha gioco facile nel trovare l’approvazione quando da una nostalgia generica verso i bei tempi andati (paragona, a sproposito, De André e Sfera Ebbasta per battere ancora sul tasto del declino culturale…) va nel particolare e parla dell’imbarbarimento della politica italiana. L’involuzione della nostra classe dirigente appare evidente, e non è un caso che in questo catalogo di dieci personalità politiche dell’Italia repubblicana (cinque della Prima Repubblica e cinque della Seconda) le negative si trovino tutte o quasi ai giorni nostri: Berlusconi, D’Alema, Renzi e Salvini sono descritti come il peggio che ci sia stato nelle istituzioni dell’ultimo quarto di secolo. Speculari fra loro, spesso simili, quasi sempre indecenti, rendono oscuro il presente e offuscano l’unica figura che Scanzi salva, ovvero quello Stefano Rodotà che dopo una carriera nel PDS fu soprattutto giurista e candidato Presidente della Repubblica nel 2013, prima della storica rielezione di Giorgio Napolitano. Al contrario, nella Prima Repubblica abbondano gli esempi positivi: il segretario del PCI Enrico Berlinguer, il Presidente più amato Sandro Pertini, e due profili che possiamo considerare delle sorprese, o degli outsider, come Ferruccio Parri (partigiano, azionista e ultimo presidente del consiglio prima del referendum del ’46 e del predominio democristiano) e Antonino Caponnetto. L’eccezione, stavolta in negativo, è rappresentata da Giulio Andreotti. La trattazione di ciascuna figura è abbastanza spicciola, fatta più di impressioni, giudizi personali e aneddoti che di un approfondimento vero e proprio, e dove invece l’approfondimento c’è (per mole e ricorso alle fonti) come nel caso del capitolo su Pertini, si rischia di sfociare in una lode troppo sperticata. Altra obiezione si potrebbe muovere alla scelta dei dieci nomi (possibile che Moro e De Gasperi non meritassero un posticino?), ma non vogliamo essere eccessivamente severi con un libro che dopotutto si fa leggere e in maniera scorrevolissima.