
Aveva dodici anni Leni, quando, per la prima volta, era entrata nella stanza della zia. Quella domenica la zia Eleonora era uscita e Leni non era stata in grado di controllarsi, contravvenendo al primo dei divieti che vigevano in quella casa: non entrare nella stanza. Ma lei lo aveva fatto e aveva trovato, lì dentro, l’ultima cosa che avrebbe immaginato di trovare: una galleria di ritratti di lei, di Leni, più o meno a tutte le età, ognuno, senza eccezioni, deturpato, strappato, rotto in qualche porzione della tela. Certo era strano, inquietante più che altro. Anche se, considerato il carattere e lo stile di vita della zia, in fondo perfettamente in linea con quella che lei era. Nei giorni successivi, la zia aveva scoperto la sua disubbidienza. Era stata la stessa Leni a lasciarsela sfuggire. Come fare, d’altra parte, a tacere una cosa del genere, quando gli abitanti di quella casa erano solo lei e sua zia, che di Leni conosceva o comandava tutto, ogni centimetro del suo corpo e ogni meandro della sua mente? Era così da sempre, dato che Leni, i genitori, non li aveva mai conosciuti. La madre, morta di parto; il padre, scappato appena avuta notizia della gravidanza. Questo era quanto le aveva raccontato zia Eleonora, anche se, in realtà – ma lo avrebbe scoperto solo molto tempo dopo –, la madre se ne era semplicemente andata, abbandonando il compagno e affidando Leni alla sorella, cioè a Eleonora. Menzogne, insomma. Fino all’adolescenza, Lei era vissuta in un mondo fatto di menzogne, abilmente confezionate dalla zia. Su molte cose le aveva mentito, ma su un concetto era stata sempre chiara: il mondo e le persone feriscono, perciò è meglio non avere legami. Non affezionarsi può risultare complicato, per cui è necessario darsi delle regole…
“Il bastone e la carota” è la metafora a cui subito si pensa quando ci si immerge nella lettura de La proibizione e si iniziano a conoscere zia Eleonora e il suo comportamento (presunto metodo educativo) nei confronti della nipote: minacce alternate a blandizie e bellezza mescolata a orrore. Eleonora ama, infatti, il bello: dipinge, ha una pasticceria in cui sforna e vende dolci deliziosi, pratica il giardinaggio, ama gli animali e si veste alla moda. Ma poi, il bello, lo distrugge: tagliuzzando i propri dipinti, abbattendo alberi, invece di potarli, piantando arbusti variopinti ma micidiali, uccidendo macaoni, per farne oggetti da collezione, utilizzando la seduzione come esca. Una vera stratega, una manipolatrice, abituata a insinuarsi sotto pelle, lentamente, mai in maniera esplicita, anche se, talvolta, la sua vera natura affiora in superficie: “Quanto amo gli oleandri!” si lascia sfuggire un giorno. “Perché sono belli, ma velenosi. I soldati di Napoleone morirono a centinaia, sai? Per aver arrostito la carne su spiedi di oleandro. La bellezza delle cose cattive è molto affascinante” (p. 71). L’inquietudine, più che Leni e zia Eleonora, è dunque la vera protagonista de La proibizione. Il libro ne è totalmente pervaso, tanto che il lettore non è abbandonato, neanche un attimo, dall’impressione che stia per succedere, da un momento all’altro, qualcosa di molto spiacevole o disgustoso, o entrambe le cose, in quell’ambiente bellissimo e claustrofobico insieme. Claustrofobico al punto tale che, sebbene porte e finestre siano aperte sul giardino, l’aria manca. Perché l’unica aria che circola è il fiato della zia sul collo della nipote, anche quando la zia non è presente. E, in questo, l’autrice dimostra bravura e mestiere – Valentina Durante è una copywriter e consulente di comunicazione –, come anche nella prosa asciutta, misurata, che non si compiace, specie nella prima metà del volume. Nella seconda metà, qualcosa cambia. La nascita, la crescita e la maturità di Daniele, il figlio di Leni, alterano gli equilibri, e la narrazione, un po’, ne risente. I ragionamenti tendono all’involuzione e i dialoghi risultano, a tratti, ripetitivi, come se neanche la Durante avesse ben chiaro in quale direzione orientare la storia.