
L’altoparlante della scuola gracchia il suo nome: Amor. La bambina deve andare nell’ufficio della Direttrice. Amor sa già cosa la aspetta. Amor sa che il momento che prima o poi sarebbe dovuto arrivare da quando sua madre s’è ammalata, è arrivato. Eppure le sembra tutto irreale: sua zia che l’aspetta nell’ufficio della Direttrice, la valigia da fare al pensionato della scuola, le zie che nel tragitto in macchina si lasciano sfuggire qualche commento non proprio edificante sulla “povera” Rachel che è morta. Dimenticandosi ogni tanto che lei, Amor, è la figlia di Rachel. Perché quella donna è voluta tornare all’ebraismo rinunciando alla Chiesa riformata olandese che è la Chiesa delle persone per bene? Ma che gli è venuto in testa a nostro fratello di sposarsi quella? Oddio, “poverina”, ora che non c’è più… povera Amor, hai perso la mamma, ci dispiace tanto… e ogni volta che qualcuno le dice “mi dispiace” la bambina scoppia a piangere. E allora giù con quei “mi dispiace” buttati lì quasi per caso… “È per il fatto che tua madre è ritornata a quella roba ebrea che non sarà sepolta alla fattoria accanto a suo marito… c’è un modo giusto e uno sbagliato di fare le cose e mi dispiace dire che tua madre ha scelto quello sbagliato. Speriamo solo che Dio la perdoni e che adesso sia in pace”. Alla fattoria c’è un turbinio di persone per l’ultimo saluto alla famiglia e a Rachel, prima che la portino via. “Ho detto agli ebrei di aspettare a portarla via. Così puoi dire addio a tua madre”. Amor è l’unica a guardare invece Salome, la domestica nera che fu comprata assieme alla fattoria. Salome che va avanti e indietro indaffarata, invisibile agli occhi di tutti gli altri. È lei che si è occupata di tutto fino alla fine. E un’immagine di poche settimane prima si fa strada nella mente di Amor: sua madre scheletrica che implora suo padre che quando tutto sarà finito, la fattoria venga lasciata a Salome. Ah! Siamo nel Sudafrica dell’apartheid…
Inizia così, partendo dalla metà degli anni Ottanta, il romanzo che ha vinto il Booker Prize 2021, la saga di una famiglia di afrikaner. Una saga familiare di quelle che riescono a raggiungere le dimensioni di un monumento senza acquisirne il peso grazie a una scrittura che volteggia senza incontrare inciampi. Una scrittura inafferrabile e fluida che denota una tecnica incredibilmente padroneggiata. Niente lineette o virgolette: i discorsi diretti sono inseriti nella narrazione terza con disinvolte piroette degne di Antonio Gades, passando per periodi declinati all’io narrante che può incarnarsi di volta in volta in un personaggio diverso e tornare senza ostacoli alla narrazione neutra nella quale compaiono e scompaiono pensieri in soggettiva. Quello che già Hemingway e Bellow avevano sperimentato viene qui portato alla perfezione stilistica. In questo è percepibile il fatto che l’autore è nato praticamente con la penna in mano: inizia a scrivere a sei anni, convalescente in ospedale per un cancro infantile. Il suo esordio letterario avviene a diciassette. Ora che di anni ne ha cinquantanove si direbbe che un po’ di praticaccia sulle spalle ce l’ha. E allora può permettersi di infischiarsene delle regole formali di grammatica, sintassi e punteggiatura. Semplicemente perché raggiunge l’obiettivo, che è quello di farci entrare in una storia e condividere sensazioni. Che è quello di far entrare la palla in porta. Quando un Campione dimostra di raggiungere l’obiettivo non si può imputargli di non avere seguito i dettami accademici. Sarebbe come criticare Maradona per il fatto di essere andato in gol contro l’Inghilterra attraversando tutto il campo senza passare mai la palla e di averla toccata per 11 volte solo di sinistro. I manuali di calcio non lo contemplano, ma il risultato si chiama Goal. E allora zitti tutti. Recensore in primis.