
È il 64 a.C., Gneo Pompeo Magno ha appena messo fine alla dinastia dei Seleucidi uccidendo il re Antioco XIII e facendo schiavi tutti quelli che non sono morti nella battaglia. Seleuco Faustus, detto Sefaste, fa parte di questi e si presenta al magistrato romano Decio, preposto alla selezione del bottino umano di quest’ultima conquista di Roma. Tra questi Sefaste, uno degli ultimi discendenti della dinastia Seleucide. Parla bene il latino, ma anche il greco e l’aramaico. Babilonia è la sua città natale e in Antiochia, capitale della Siria e ora nuova provincia di Roma, è cresciuto. Ha diciannove anni, capisce prima di tutti gli altri il suo futuro da schiavo e pensa che la sua vita sia finita. Il fatto di conoscere l’arte della guerra, di essere così giovane e così colto ne accresce il valore commerciale e tutto questo viene annotato da Decio nella tabula di cera. Il magistrato ha già deciso: tiene Sefaste per sé, insieme ad altri undici schiavi e invita i suoi collaboratori a seguirlo nella zona del Foro dove si tengono le aste dei prigionieri. Tutti gli altri schiavi sono affidati e distribuiti equamente ad altri togati. Decio, una volta giunti al Foro, li riguarda tutti di nuovo: deve definire il loro valore in sesterzi. Il costo base di Sefaste è di duemila e cinquecento sesterzi, ma Decio non riesce a ricavarne più di duemilatrecentocinquanta, perché, gli fanno notare, quel prezzo di partenza corrisponde alla cifra con cui si vendono i gladiatori e il giovane non ne ha affatto la struttura fisica. Ad aggiudicarselo è Valerio Pomponio Attico...
Tutto il romanzo ruota intorno al concetto di libertà e, che si sia schiavi nell’antica Roma o nei tempi moderni in realtà c’è poco di diverso, se siamo abituati a costruirci gabbie mentali interne. Ovvio che la condizione di schiavitù di per sé è terribile, ma quella di Sefaste, se consideriamo anche che siamo nel primo secolo avanti Cristo, è quasi una schiavitù semplice, forse “dorata” rispetto a quella di molti altri. Proprio questo ci permette di approfondire con noi stessi quella capacità tutta umana di complicarci la vita, di sentire un cappio stretto intorno al collo, senza realizzare che in fondo lì dentro la testa ce l’abbiamo infilata noi. Siamo capacissimi di farci molto male con il pensiero, a volta anche a causa di situazioni rimaste irrisolte sin dall’infanzia, proprio come succede a Sefaste, ma purtroppo non sempre abbiamo qualcuno al fianco che sia in grado di aiutarci a vedere più chiaramente le situazioni, demolendo quei muri della diffidenza, dell’ignoranza, della capacità di farci male a prescindere. È una lettura, quindi, questa, che ti arriva come un pugno allo stomaco, perché sembra che parli a ciascuno di noi, al di là del piacere della storia da seguire. Un invito a riflettere continuo, così come continuo è il rapportarci con quello che leggiamo, con la vita di Sefaste, con i suoi pensieri, con la scelta di scappare o semplicemente con il continuo pensare negativamente a ciò che gli capita nella sua condizione di schiavo. E ci si schiera, a favore o contro le sue reazioni. Bravo è stato il chirurgo (ma anche e soprattutto psicoterapeuta e docente di psicopatologia) Gianfranco Sorge, a costruire intorno a tutto quello che voleva dirci un romanzo che, attraverso una storia dell’antica Roma, ci pone di fronte a noi stessi. Perché se Cornelia insegna a Fabiola che “si può essere liberi attraverso la conoscenza, pur essendo degli schiavi”, anche noi possiamo capire che ognuno è artefice del proprio destino e soprattutto responsabile dei limiti e dei confini che si autoimpone. E a guardarci bene dentro, non sono pochi!