Salta al contenuto principale

La scelta di Nataša

La scelta di Nataša

“L’amore non è una patata. [...] Perché quando l’amore va a male non puoi buttarlo dalla finestra” è un proverbio russo che tradotto non rende bene come in lingua originale, dove le parole okoška (finestra) e kartoška (patata) lo rendono inevitabilmente più musicale. In ogni caso la bisnonna Alisa lo ripete a Zoe da quando è nata, perché le donne della loro famiglia si tramandano l’importanza e la difficoltà di “scegliere bene la persona con cui trascorrere la vita”. Alisa, Nataša e Julia: tre generazioni di donne, più un uomo quasi invisibile, condividono un appartamento con tre camere da letto – dove non esiste privacy – a Brighton Beach, il quartiere di Brooklyn rinominato Little Odessa dalla metà degli anni ’70, mentre Zoe vive da sola, da vera cittadina americana quale si sente di essere, così diversa dalle donne della sua famiglia. Tra loro comunicano con la mescolanza linguistica figlia dell’immigrazione, tra russo, tedesco e inglese, e qualche parola nata da fusioni bilingue, con la creazione di buffi neologismi. Insieme stanno organizzando la festa per il quarantacinquesimo anniversario di matrimonio di Baba Nataša e Deda, nonostante la festeggiata sia contraria, in un atteggiamento che non è da lei, visto che le piace sentirsi riverita e festeggiata. Ma Julia ignora la resistenza della madre, e le sue ragioni taciute, irremovibile nell’andare fino in fondo...

Cinque generazioni e una vicenda che abbraccia quasi un secolo, dagli anni Trenta a oggi, in un viaggio attraverso la storia, la geografia e la politica. Cinque donne legate dal sangue, costrette a compiere una scelta che condizionerà la loro vita, ma anche quella delle altre. Da Dvora – cambiato in Daria – a Zoe che porta con orgoglio il nome americano e rifiuta invece Zoya, insieme agli aspetti più conservativi della cultura di famiglia, così lontana da lei; da Odessa ai campi di prigionia siberiani, fino agli Stati Uniti; dall’epurazione e la deportazione staliniste degli esiliati politici alla caduta del muro di Berlino, fino al quartiere russo di Brooklyn oggi, in un decremento di intensità e tensione che vanno perdendosi nell’ultimo libro, che in confronto al primo sembra infatti un po’ sciapo. Zoe non vive certo quello che la trisnonna ha vissuto, inevitabilmente segnata dal doloroso passato, ma ne subisce la negatività tramandata, e la interiorizza, così da anteporla sempre ai suoi desideri, e lasciando che condizioni ogni sua scelta, come è stato per ogni donna della sua famiglia, come se le umiliazioni subite, le crudeltà e le iniquità della dittatura possano essere tramandate come un’abitudine. Alina Adams tratteggia molto bene queste donne, contestualizzandone le vicende in una cornice storica definita, raccontando fatti che non siamo abituati ad ascoltare e che ci sembrano lontanissimi, nel tempo e nello spazio. Un romanzo sull’amore, sulla necessità, sull’identità e le differenze, sull’appartenenza a un gruppo, su dolore e sacrificio, commovente e doloroso, con un’analisi profonda delle aspettative rispetto ai nostri bisogni: “Alla fine la vita ti dà quello che pensi di volere. Solo che, forse, non nel modo in cui pensi di volerlo”.