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La scomparsa di Majorana

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Al porto di Napoli, il 25 marzo del 1938, un geniale studioso dall’aspetto schivo si accoda per imbarcarsi sul piroscafo diretto a Palermo. Nello stesso momento, il suo superiore dell’Università di Napoli sta leggendo la lettera di commiato redatta da quel giovane: “Ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti”. A firmare è Ettore Majorana, fisico teorico di 32 anni. Un’altra missiva, stessi mittente e destinatario, comunica poco dopo un ripensamento, ma fissa la volontà di abbandonare la carriera universitaria. Da qui, il buio. Majorana sarà partito ugualmente? Sarà arrivato nella sua terra di origine, in Sicilia? Le tracce si perdono proprio durante quel viaggio, mentre cominciano ad affiorare domande, ipotesi, sospetti. Lo scienziato avrà pensato al suicidio durante la navigazione, come gli inquirenti frettolosamente dichiarano? Oppure avrà scalato il Vesuvio per cercare la morte nel cratere spento? Potrebbe essere stato vittima di un rapimento, di un omicidio su commissione oppure aver imboccato un sentiero di panico o follia. L’episodio diventa un caso. Del resto, Majorana non era un accademico qualunque: era uno dei ragazzi di via Panisperna, i fisici che - sotto la guida di Enrico Fermi - avviarono gli esperimenti che portarono alla costruzione della bomba atomica. Erano anni cruciali per il destino del mondo: mentre le potenze impegnate nel conflitto disperatamente cercavano strade rapide e definitive per l’annientamento del nemico, in Italia, con Mussolini al potere, veniva pubblicato il manifesto della razza che faceva tremare lo stesso Fermi e altri colleghi di origine ebraica…

Cosa aveva turbato l’animo di Majorana? Lo studioso era infinitamente apprezzato dalla comunità scientifica: “Fermi e i ragazzi cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Quelli che l’amavano, volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, la ‘portava’”. Genio brillantissimo, uomo solitario, schivo, ombroso, per Leonardo Sciascia - suo corregionale - il fisico era uno di quei “siciliani buoni, i siciliani migliori”. Lo scrittore apre quindi quello che oggi chiameremo cold case, un mistero irrisolto, a metà degli anni Settanta, pubblicando a puntate per “La Stampa” articoli e inchieste, poi confluite in questa opera. Sciascia è alla ricerca di una verità al di là delle tesi imperanti: agli atti ufficiali e alle lettere, da intellettuale attento e critico, può permettersi di compiere un’indagine letteraria (attenzione: non fantasiosa) che coinvolge il lettore in quanto appartenente alla società civile e coinvolto in questa necessità di conoscenza. Insinua dubbi e li smonta e rimonta, ricostruisce e prevede, lungo una linea di pensiero raffinatissima e puntuale. “I morti si trovano, sono i vivi che possono scomparire”: Sciascia non può credere alla semplice e immediata ipotesi di suicidio e cerca le ragioni per le quali “un uomo intelligentissimo” sceglie di scomparire. Motivazioni intime? La consapevolezza che l’arma nucleare avrebbe plasmato il futuro in modo tragico? Per andare oltre l’inchiesta giudiziaria e avvicinarsi alle conclusioni, Sciascia ricorre ai numi della letteratura: Stendhal, Pirandello, Shakespeare. Leggere questo libro è incamminarsi lungo i percorsi meno scontati del pensiero, è un viaggio verso la verità dove la ragione danza con il dubbio.