
Prima metà dell’Ottocento. Un uomo si reca in visita dal suo vecchio amico William Legrand. Costui, di famiglia ricca ma caduto in disgrazia, ha abbandonato la natìa New Orleans e si è ritirato nella piccola isola di Sullivan, quindici chilometri al largo di Charleston, nella Carolina del Sud. Qui ha costruito una casetta modesta nella quale vive con uno schiavo affrancato, un anziano nero chiamato Jupiter a lui molto affezionato. Per hobby Legrand raccoglie insetti da anni e perciò ha ormai una collezione entomologica da far invidia a un’università. È una serata di ottobre insolitamente fredda, ma il visitatore trova Legrand di ottimo umore: ha trovato un esemplare di scarabeo che descrive come notevolissimo, ed è ansioso di mostrarglielo. Peccato però che lo abbia consegnato al luogotenente del forte che sorge sull’isola e che quindi fino all’indomani non possa riaverlo. Lo scarabeo, a quanto pare, sembra di consistenza metallica, anzi sembra proprio d’oro, come aggiunge Jupiter con foga, e ha il dorso segnato da affascinanti macchie regolari. Intanto, Legrand prova a disegnarlo su di un sudicio foglio di pergamena che ha cavato dal taschino. Il suo amico squadra il disegno per qualche secondo e sì, conviene con l’amico che è un insetto assai strano, ha la forma di un teschio umano più che di uno scarabeo, a onor del vero. A Legrand pare un paragone molto azzardato, stizzito strappa di mano il foglio al suo ospite, poi lo guarda e pare trasecolare. Avvicinata la pergamena ad una candela, la gira e rigira vicino alla fiamma osservandola minuziosamente. Vedendolo così concentrato e non proprio di buonumore, l’amico saluta lui e Jupiter e torna a Charleston. Circa un mese dopo, gli fa visita Jupiter, che gli racconta strane cose su Legrand: a quanto pare il suo amico è caduto preda di una strana fissazione, non fa che scrivere numeri e lettere senza senso su una lavagna e poi “gira di qua e di là, tutto pensieroso, con gli occhi per terra, con la testa bassa, con le spalle ripiegate e pallido come un’oca”…
Edgar Allan Poe “scoprì” la crittografia e il mondo di appassionati che vi ruotava intorno nel 1839, quando iniziò a collaborare con la rivista di Philadelphia “Alexander’s Weekly Messenger”: da quelle pagine sfidò i lettori a inviare in redazione testi cifrati di ogni genere, che si impegnava a risolvere. Raccontò poi come era andata quell’esperienza in un articolo intitolato Qualche parola sulla scrittura segreta, pubblicato nel luglio 1841 sul “Graham’s Magazine” e qui riproposto in appendice, articolo che contiene ulteriori enigmi, risolti soltanto in tempi recenti. Ma il grosso di questo grazioso libriccino edito da Elliot è costituito da Lo scarabeo d’oro, uno dei “classici” di Poe. Originariamente lo scrittore aveva venduto il racconto al succitato “Graham’s Magazine” per 52 dollari, ma quando sentì di un concorso letterario bandito dal “Philadelphia’s Dollar Newspaper” chiese di riaverlo indietro per poter partecipare (ma, per la cronaca, non restituì mai il denaro ricevuto). Una scelta azzeccata, dato che Lo scarabeo d’oro si aggiudicò il primo premio di 100 dollari, la cifra più alta mai ottenuta per un racconto da Poe in tutta la sua vita (!!!). Pubblicato a puntate, il racconto ebbe un lusinghiero successo (tanto che nel 1845 Alphonse Borghers lo tradusse in francese – cosa che avveniva per la prima volta per un’opera di Poe - per la “Revue Britannique”), attirando l’attenzione del grande pubblico (e la gelosia di altri scrittori, che lo accusarono di plagio e addirittura di frode) sulla crittografia e la “scrittura segreta”. William F. Friedman, considerato il maggior esperto in materia della storia degli Stati Uniti e celebre per aver decifrato il codice segreto giapponese Purple durante la Seconda guerra mondiale, raccontava sempre di aver scoperto l’esistenza della crittografia leggendo da bambino con grande meraviglia Lo scarabeo d’oro. L’idea della mappa segreta da decifrare per trovare un tesoro di pirati che è al centro della vicenda è ovviamente assolutamente seminale e ha avuto una fortuna immensa: lo stesso Robert Louis Stevenson ha ammesso di aver preso spunto da questo racconto per il suo capolavoro L’isola del tesoro.