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La sposa vermiglia

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L’adolescenza di due sorelle siciliane legate da un profondissimo rapporto fatto di sogni, litigate, abbracci, sostegno reciproco e speranze, viene interrotta dalla decisione parentale di far sposare Concetta a un giovine del posto, un certo Mimmo Fazio e mandare l’altra sorella Vincenzina in convento. Il fatto è che quest’ultima di farsi suora proprio non ne vuole sapere. Non ne ha la vocazione. Inoltre, ha sogni da giovinetta che contemplano libertà e cappellini alla moda. Ma il padre sembra irremovibile. Di tre figlie femmine, la minore deve essere consacrata a Dio. E allora Vincenzina prega e scongiura di arrivare almeno ai sedici anni, poi entrerà in convento e sarà sposa solo del Signore. Il padre accetta e la ragazza impiega il tempo che le resta prima che i cancelli del chiostro si chiudano per sempre dietro di lei a pregare con un fervore esemplare che la sorte per lei possa cambiare, che il padre possa mutare idea o che un principe azzurro su un destriero bianco venga a salvarla e portarla via come nella più banale delle favole. La vita e il destino come sempre però scelgono per tutti e Concetta poco prima delle nozze si ammala e muore in un tempo che dura quasi un soffio. E mentre la sorella è agonizzante nel letto, Vincenzina che non può darsi pace e che la ama più della propria vita ritorna a pregare, rivoluzionando però completamente le proprie preghiere: se Concetta si salva lei entrerà in convento, si raserà la testa e non mangerà più dolci. Tutto inutile, Concetta spira con la mano in quella della sorella. Il padre, allora, pensando di avere già sacrificato una figlia, decide che Vincenzina può sposarsi e la promette a un individuo più grande e del tutto non attraente. La giovane - presa dallo sconforto - comprende quanto sarebbe stato meglio, a quel punto, il convento e la sua quiete. È disperata Vincenzina, ma non sa che anche in questo caso la vita sceglierà per lei e nella sua esistenza entrerà Filippo Gonzales…

La sposa vermiglia mi ha riportato agli anni del liceo classico, quando prima delle vacanze estive l’insegnante di lettere ci dava una lista di libri da leggere nei mesi lontani dai banchi di scuola. Erano romanzi classici e di formazione. Non didattici o di quelli inseriti nelle liste ministeriali. Lo faceva per noi, diceva. Per educarci alle belle letture e alla bella narrativa italiana. Tea Ranno, sicuramente, sarebbe stata inserita in quella lista perché dei nostri classici della letteratura i suoi libri (e soprattutto questo) hanno l’eco e il fascino. Ne La sposa vermiglia c’è tanto Sciascia, ma c’è anche tanta Deledda, c’è Pirandello e tutta la capacità tipica dei grandi narratori italiani di far percepire ai lettori i profumi e i colori. Si chiama proprio così, scrittura percettiva e come per il “coraggio di don Abbondio”, se uno non ce l’ha non se la può dare. Tea Ranno è straordinaria nel raccontare la “sua” Sicilia perché a tratti si ha quasi l’impressione che se ne infischi altamente di stare scrivendo un libro e che il suo unico scopo sia quello di dare sfogo al suo impellente bisogno di raccontare, di dare vita e sostanza a una storia che preme dietro le tempie e che non può rimanere chiusa lì. Vincenzina è un personaggio potente, teatrale, cinematografico, evocativo. Una protagonista da verismo reinventata attraverso una visione contemporanea di ribellione e passione, descritta e fatta parlare con quel linguaggio territoriale e specifico a cui la Ranno non solo non rinuncia ma lo consacra a cifra stilistica ben precisa.