
Il commissario Quiroz ormai ci ha fatto il callo, è una triste consuetudine: la prima cosa a cui pensa quando qualcuno bussa alla sua porta, soprattutto in orari particolari, è che di mezzo ci sia un cadavere. Di solito si tratta di ragazze. Giovani, giovanissime. La città sembra non essere mai sazia di corpi di donna. Per lo più prostitute, usate e gettate via nel peggior modo immaginabile. L’ultima, vicino al fiume, minuta, chiara, se non fosse stato per la schiena marchiata dalle bruciature di sigaretta sarebbe sembrata una bambola. Quattordici anni, difficile ne avesse di più. Così, quella mattina, alle cinque, mentre Sonia, che quel giorno compie gli anni, accanto a lui dorme ancora - tanto profondamente da non accorgersi del suo masticare amaro, né del fatto che i colpi all’uscio si fanno via via più forti e insistenti, né del bacio che lui le dà sulla spalla, con la voglia di mordergliela - Quiroz sa che c’è un cadavere che lo aspetta. Dev’essere così per forza: Tafoya, il sergente più vecchio della storia del paese, come Quiroz è solito stuzzicarlo quando è di buonumore, mai promosso perché troppo impressionabile, nonostante i millenni in polizia, non si azzarderebbe mai a disturbarlo con così tanta insistenza per nessun altro motivo. Quiroz non si mette nemmeno la camicia: a petto nudo, peloso e scuro, con la pancia troppo tesa, va alla porta. Ma lo attende una sopresa: non si tratta di una morta. Si tratta di un morto…
Il segreto delle piramidi, Carmencita, Il pirata ballerino, Peccatrici folli, Seduzione, Sangue e arena, Bionda fragola, Destino, Fascino, La signora di Shanghai, Trinidad, Salomè e soprattutto Gilda: non era affatto rossa, la sottoposero a torture terribili per renderla una femme fatale, è stata abusata in ogni modo possibile in primo luogo dal padre e dagli uomini a cui lui la dava in pasto per la fama, era troppo bella perché spiccasse il talento, ma nonostante questo ha lavorato con tutti i più grandi e il più grande di tutti, Orson Welles, l’ha addirittura sposato, come anche un erede dell’Aga Khan. Si chiamava Margarita Carmen Cansino, ma per tutti era la dea dell’amore, la diva, morta nemmeno settantenne nel 1987 devastata dall’Alzheimer e dall’alcol in cui ha cercato invano di affogare il male di vivere, la donna stupenda imitata, emulata, citata, a cui hanno intitolato persino una bomba atomica, Rita Hayworth. È lei una delle protagoniste della storia straziante che racconta Sandra Lorenzano, alla sua prima opera tradotta in italiano, autrice argentina che vive in Messico e la cui prosa intensa e magnetica incarna pienamente le caratteristiche tradizionali della letteratura latinamericana, che riesce a essere lirica e appassionata anche quando tratta con scabra asciuttezza degli argomenti più turpi. La stirpe del silenzio è un’esegesi raffinata e potente, ben caratterizzata sia per quanto riguarda gli ambienti che le situazioni, le emozioni e i personaggi, del meccanismo perverso del senso di colpa che viene instillato, spesso anche sotto la spada di Damocle della religione, nelle persone, in questo caso in tre figure femminili che si rispecchiano l’una nelle altre, sin dalla più tenera infanzia, condannandole all’infelicità. Nel 1909 infatti Anie e Claire, due sorelline parigine rimaste orfane di entrambi i genitori, periti in un incidente, sono imbarcate dal parroco su una nave che le porterà in Messico, dove è stato loro promesso un futuro migliore. Il parroco però è in realtà un adescatore di bambini, e l’avvenire in realtà è fatto solo di droga e violenza: ma nonostante tutto c’è la speranza, che vive nella memoria che le generazioni future conservano e tramandano, impegnandosi per cambiare ciò che non va.