
Una vita attraverso i suoi incontri. Pigiata sotto il peso di voci, suoni e odori sublimati al fuoco della parola: vita e arte, intrecciate alla stregua di storia e trama, si sovrappongono e si confondono nella personalissima traiettoria speculativa dello scrittore, saggista e sceneggiatore britannico. Un dialogo urgente e cordiale con un “tu” che sembra possibile sfiorare, nei panni del quale viene spontaneo mettersi. Un resoconto capace di forzare la gabbia cronologica per guardare al cuore di accadimenti apparentemente di poco conto, alla scia che lasciano dietro di sé. Dove ogni attimo ha un sapore distinto e distintivo, e dove i giorni vengono declinati facendo ricorso a un vocabolario emotivo saldamente ancorato nei frangenti salienti della storia di un uomo e di un artista che si è fabbricato da sé una chiave di lettura del mondo. Un artista che, da questi avvenimenti, trae linfa per ripensare il mondo che lo circonda per mezzo di riflessioni e giudizi affilati, invettive pungenti, struggenti rievocazioni e digressioni semiserie. Il tutto all’insegna del più puro eclettismo. Un crogiuolo di rara meraviglia letteraria nel quale, disseminati qua e là come briciole sulla tovaglia, spiccano numerose annotazioni di carattere tecnico attorno alla prassi stessa del narrare, al processo della scrittura e alle sue condizioni predisponenti, all’ideazione e precisazione della trama, alla caratterizzazione dei personaggi, alle coordinate distintive di generi e sottogeneri. Una “cassetta degli attrezzi” indispensabile per chi volesse cimentarsi con cognizione in questa prova, magari evitando di cadere preda di odiosi cliché. Dal Nobel per la letteratura Saul Bellow a Edward Morgan Forster, membro del “gruppo di Bloomsbury”, sono diversi i “compagni di cammino” che fanno irruzione nel romanzo moltiplicandolo per schizofrenica giustapposizione, “come la pastina alfabeto”, in un maestoso gorgo di connessioni che ricompone un diario di viaggio lungo una vita e che assume i connotati di un alveare di micronarrazioni centrifughe. In La storia da dentro viene ripreso il filo adoperato con il precedente Esperienza, questa volta però allargando le considerazioni al di fuori del ristretto cerchio familiare, attraverso un montaggio controintuitivo dei capitoli che maneggia il fattore tempo con disinibizione. Con quale scopo, è presto detto. È lo stesso Amis a mettere sul tavolo la questione da un milione di dollari: quale universalità possa albergare al cuore di un romanzo autobiografico, e a quali condizioni questo prodigio possa avere luogo...
L’attrazione, l’amore, il sesso, l’amicizia, l’inquietudine, la rabbia, la religione, i sogni, l’etica e la morale, la storia, il futuro, la rivoluzione: nessuna zona dell’esistenza umana rimane fuori da questo “commovente compendio vivente di tutti gli impulsi umani”. Da un edificio di pensiero e scrittura intenzionalmente accogliente, che accarezza questi temi tra le pagine di un’autobiografia romanzata che folgora e conquista. E che svela i fondamentali del genio, insegnando a riconoscerli e a prendersene cura, a tenerli in vita più a lungo possibile. A prolungare, cioè, il mirabile privilegio accordato agli scrittori, ai quali è concesso di morire due volte, al prosciugarsi del torrente di sangue e di quello di emozioni che li lambiscono e li animano. Fare memoria per dare spazio all’urgenza di riconoscere un’ascendenza artistica che non si fa mai debito: sembra questo l’intento programmatico dominante, ed è singolare che a farlo proprio sia un figlio d’arte. Merito del potere affabulatore sotteso al sottogenere del lifewriting, oggi alla ribalta: quello che, per ricorrere a una celebre espressione di Churchill, è assimilabile a “un indovinello avvolto in un mistero dentro un enigma”. Far convivere sguardo eccentrico e sguardo benevolmente obliquo, alla luce dei quali quanto vi è di insignificante viene riscattato e caricato dei toni sublimi e terribili di una ritrovata epica quotidiana. Prerogativa, questa, di uno tra gli esponenti di punta della letteratura inglese post-moderna, scomparso da pochi giorni. Un flusso di memoria che sa farsi flusso di coscienza: fare leva sulla dimensione del ricordo come innesco per una narrazione che cerca sempre di sollevarsi dal piano del puro e semplice resoconto, di farsi specchio di intenti altrimenti inaccessibili, costituisce forse il più alto merito di questa autobiografia postuma. Una ricapitolazione poderosa e ponderosa, dove narrazione e riflessione camminano fianco a fianco, e dove la prima si fa pretesto per il precisarsi della seconda, attraverso le traiettorie tortuose che gli estimatori del maestro di Oxford hanno imparato a riconoscere e apprezzare. E dove la narrazione in terza persona garantisce una profondità sorprendente tra voce narrante e voce narrata, tenuto conto che siamo in presenza di una ricostruzione meticolosa al limite dell’ossessivo, animata da un puntiglio sintomatico dell’importanza attribuita all’opera dal suo artefice, da un’energia che pervade ogni dialogo e che afferma il predominio della finzione sulla realtà, in rapporto al quale trova senso la necessità di sostare di tanto in tanto, di tacere per darsi il tempo di ampliare e precisare gli orizzonti di un ragionamento portato avanti all’ombra della narrazione. A ricordarci quelle “angosce silenziose” da cui, sovente, i romanzi meglio riusciti nascono. Il testamento ultimo del maestro de La freccia del tempo è racchiuso nella nota agrodolce che rimane in bocca a fine lettura, e che non deve sorprendere né tantomeno deludere. Perché “i romanzi [...] non si possono finire; l’unica è buttarseli alle spalle”.