
XVII secolo. In una torrida giornata estiva due ragazzi dall’apparente età di quattordici e quindici anni siedono per fare la siesta sotto il porticato del Piccolo Mulino, un’osteria posta lungo la strada che dalla Castiglia conduce verso l’Andalusia, nel punto esatto in cui si addentra ormai nella Sierra Morena. Entrambi hanno il volto bruciato dal sole, gli occhi scavati dal caldo e dagli stenti, la mani assai sporche e le unghie cerchiate di nero. Indossano abiti logori e calzano scarpe malconce, uno porta una spada tronca e l’altro è munito di un coltello da vaccaro. Non si sono mai incontrati prima, ma non tardano a fare conoscenza. Il più giovane racconta di chiamarsi Diego Del Taglio e di essere figlio di un sarto dal quale ha appreso il mestiere e se n’è servito per scucire tasche e tagliare borse. Il più grande, invece, si presenta come Pietro del Canto e rivela di aver rinunciato ad accostarsi al padre nell’attività di banditore di bolle ecclesiastiche per guadagnarsi da vivere barando al gioco delle carte. Sotto la spinta della comune condizione stringono amicizia e si associano per spennare gli avventori delle locande non appena saranno arrivati a Siviglia…
Docente universitario di storia delle dottrine politiche e attento studioso della cultura spagnola, Walter Ghia ci presenta in questo agile volumetto di poche pagine e rapida lettura la nuova traduzione e un illuminante saggio critico introduttivo di una delle novelle più riuscite di Miguel de Cervantes. Composto presumibilmente tra il 1601 e il 1605, il racconto ci consegna la vicenda di due tipiche figure di picari: due ragazzi che hanno intrapreso la vita del vagabondaggio e preferito ricorrere al furto e all’imbroglio invece di dedicarsi a un’occupazione onesta. La loro identità è già tutta nel titolo originale Rinconete y Cortadillo, due diminutivi che fungono da soprannomi, dove Rincón (angolo) rimanda all’agire di soppiatto e dunque metaforicamente all’attività del baro, mentre Cortado (taglio) rinvia all’abilità di chi incide le borse con la lama e dunque metaforicamente all’arte del furto. Ci troviamo dinanzi a un racconto di un’emozione discreta ma che cattura l’attenzione per la descrizione assai accurata del fenomeno della criminalità a Siviglia, che l’autore aveva desunto da alcuni malavitosi nel periodo della sua carcerazione. E al termine della lettura non restano dubbi né sul valore di questo grande scrittore, né sulla suggestione della sua scrittura, che non giunge alla lucentezza verbale solo perché non vi aspira.