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La teoria di Camila

lateoriadicamilla

È appena terminata la solita partita di calcetto, quel filo diretto con gli anni del liceo che alimenta l’illusione che - nonostante la calvizie, gli addominali inesistenti e la resistenza fisica sensibilmente ridotta - i magnifici anni Ottanta siano ancora dietro l’angolo e che loro, i giocatori, si siano mantenuti ancora gagliardi e belli come un tempo. Marco ha quarantanove anni, due figli, un lavoro che non gli piace, una ex moglie, una moglie e diverse amanti tra cui Annalisa, che proprio questa sera deve raggiungere a fine partita. Annalisa è una che detesta aspettare e Marco è già un po’ in ritardo. Ecco perché, mentre prende l’accappatoio dal borsone e vede la luce del suo cellulare lampeggiare tra la camicia pulita e i jeans ripiegati, sorride pensando a quanto sia impaziente la sua amante. Quando però prende il telefono in mano, il display mostra sette chiamate senza risposta e un SMS. Non si tratta di Annalisa, ma di Camila, la badante ucraina di suo padre che, in un italiano zoppicante, gli comunica che il professore non c’è più. La scopre così, Marco, la morte del padre e subito un dolore acuto gli trapassa lo sterno. Si siede sulla panca di legno dello spogliatoio e cerca di respirare a lungo. Poi entra in doccia, apre al massimo il getto dell’acqua calda, si appoggia alle piastrelle e comincia a singhiozzare. Dopo essersi rivestito, entra in auto come un automa, mette in moto e si rende conto di non sapere dove andare. La sua vita è ora uno spazio bianco, come se ogni cosa fosse stata resettata nel giro di un attimo. Chiama la moglie e le comunica, in modo alquanto generico, che suo padre ha avuto una crisi e che lui lo accompagnerà in ospedale. Non vuole dirle la verità, non ancora. Quando arriva davanti al condominio dei genitori la nausea gli agguanta lo stomaco e lo spinge a compiere diversi giri intorno all’isolato, prima di decidersi a cercare un parcheggio. Sono quasi le ventitré. Suo padre è morto da un’ora e lui non lo ha ancora detto a nessuno…

No, questa volta non c‘è il conturbante vicequestore di polizia in tacco dodici, né l’inquieta marescialla dei Carabinieri in sella alla sua moto. Il romanzo di Gabriella Genisi - scrittrice barese nota per i romanzi gialli delle serie dedicate a Lolita Lobosco e a Chicca Lopez - ha per protagonista un ingegnere romano apparentemente risolto, ma in realtà rappresentante di quella generazione di immaturi che, alla soglia dei cinquant’anni, ancora non sa cosa significhi assumersi le proprie responsabilità ed essere un vero uomo. Marco è al giro di boa della sua esistenza, una realtà fatta di matrimoni, tradimenti, separazioni, figli e bugie. Un’esistenza che non riesce più a scuoterlo, ma che si ripete in loop sempre uguale a se stessa e affossa ogni suo slancio. In un’unica notte, lunga come cento e profonda come mille, l’uomo è costretto da una circostanza improvvisa e dolorosa a fare i conti con ogni singolo momento del proprio passato, a riavvolgere il nastro, a ricucire il rapporto con un padre di cui avrebbe, ora più che mai, un bisogno vitale. Segreti taciuti e finalmente svelati; comportamenti equivoci che trovano la loro ragione d’essere e la loro congrua spiegazione; una badante ucraina - giovane e mai del tutto presa in considerazione - che si fa portavoce di una teoria di vita tanto semplice quanto necessaria, che vede nell’amore e nella capacità di ascolto l’arma più potente e più efficace, quella capace di assecondare i movimenti del cuore che - lui sì - sa sempre dove andare. Una storia che fa breccia nel cuore del lettore, perché affronta temi che spaventano - la morte, la paura dell’abbandono, la fatica che si cela dietro ogni rapporto - ma che vanno analizzati e approfonditi; scava emozioni che è un bene vengano raccontate e ribadisce il concetto, tanto semplice quanto fondamentale, che la vita è un dono prezioso che non dovrebbe andare sprecato. Penna intelligente e sagace, la Genisi offre una prova diversa rispetto a quelle legate ai suoi romanzi di maggiore successo, ma assai convincente nella sua capacità di raccontare i sentimenti senza retorica e di sottolineare, attraverso una vicenda carica di speranza, l’importanza del ritrovarsi.