
1959, Puglia. Ogni 29 giugno i “tarantati” di tutto il Salento tradizionalmente affluiscono a Galatina, nella chiesa di S. Paolo, per ringraziare il santo della guarigione ottenuta a casa oppure per implorare una guarigione ancora non avvenuta. Ma perché una persona morsa da un ragno dovrebbe vedere alleviati i propri sintomi da preghiere e musica, da rituali a metà tra il magico e il religioso? Semplicemente perché il veleno delle tarantole – nonostante la gente qui affermi e/o creda il contrario – non ha nulla a che vedere col fenomeno. Quest’anno i “tarantati” accorsi sono 35 (su circa 100 presenti in tutto il territorio pugliese), ma solo uno di loro è realmente affetto da latrodectismo, ovvero colpito da una sindrome causata dal veleno neurotossico (latrotossina) iniettato dal morso di ragni che fanno parte del genere Latrodectus. E gli altri? Cerca di trovare una risposta a questo interrogativo una équipe di ricercatori costituita dall’antropologo, storico delle religioni e filosofo Ernesto De Martino, dal neuropsichiatra Giovanni Jervis, dalla psicologa Letizia Jervis-Comba, dal medico Sergio Bettini, dal musicologo Diego Carpitella, dall’antropologa Amalia Signorelli, dall’assistente sociale Vittoria De Palma e dal fotografo Sandro Pinna. La spedizione in Puglia è stata preparata meticolosamente nell’inverno tra 1958 e 1959, per poter svolgersi nel mese di giugno, quando sono previsti i riti di S. Paolo in Galatina. A confermare la natura simbolica e culturale del tarantismo c’è anche un altro bizzarro particolare: il territorio di Galatina è “immune” dal tarantismo a causa della protezione accordata da S. Paolo, quindi anche eventuali morsi di tarantola nella cittadina e nelle campagne circostanti sono innocui “per concessione dell’Apostolo delle Genti”…
La prima idea di compiere un’indagine etnografica sul tarantismo pugliese venne a De Martino (1908-1965) guardando alcune belle fotografie di André Martin scattate nella cappella di S. Paolo in Galatina: una giovinetta che saltellava sull’altare, un vecchio sdraiato al suolo urlante e con le braccia levate al cielo accanto ad altre due giovinette vestite di bianco e distese in pose scomposte sul sagrato della chiesa. I protagonisti delle foto erano “tarantati” (cioè persone morse da una tarantola e da allora preda di misteriosi, gravi malesseri) giunti da diversi paesi del Salento e sottoposti a una sorta di esorcismo. Emerge ben presto dalla ricognizione sul campo della squadra di ricercatori che il veleno dei ragni non ha nulla a che vedere con tutto questo e che le crisi ricorrenti, “stagionali” dei tarantati sono in realtà un modo antico e teatrale “per evocare e configurare, per far defluire e per risolvere altre forme di “avvelenamento simbolico”, e cioè i traumi, le frustrazioni, i conflitti irrisolti nelle singole biografie individuali [...]. A un più alto livello di autonomia simbolica, in occasione di determinati momenti critici dell’esistenza – come la fatica del raccolto, la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, un amore infelice o un matrimonio sfortunato, la condizione di dipendenza della donna, i vari conflitti familiari, la miseria, la fame, le più svariate malattie – insorgeva “la crisi dell’avvelenato” utilizzando il modello del latrodectismo [...], il modello di avvelenamento più comune in una società agricola)”. Non è un morso quindi al centro di questo affascinante fenomeno, bensì un “ri-morso”, cioè da una parte la riproposizione rituale dei presunti sintomi di un avvelenamento – come se si venisse morsi ancora e ancora – e dall’altra l’impossibilità dolorosa, patologica a risolvere un conflitto interiore, che viene continuamente riproposto esteriormente, all’attenzione della comunità. “In un senso più ampio”, scrive De Martino nella sua introduzione, “la terra del rimorso, cioè la terra del cattivo passato che torna e rigurgita e opprime con il suo rigurgito, è l’Italia meridionale, o più esattamente le campagne di quel che fu l’antico Regno di Napoli, di quel regno che stretto tra lo Stato Pontificio e il mare suggerì a un suo re l’immagine di una terra protetta dalla Storia e quasi fuori dal mondo, «tra l’acqua benedetta e l’acqua salata», tra il Patrimonio di S. Pietro e il mare”.