
Ludwig Sommer, nella speranza di salvarsi, fugge dalla Germania nazista e arriva a New York. Qui, da “emigranten”, è chiamato a ridisegnare la sua esistenza: diviene mercante d'arte (“Amare l'arte e al contempo venderla. Ogni mercante d'arte è dottor Jekyll e mister Hyde”), entra nel giro giusto, “l'America gli spalanca le braccia che ha chiuso agli altri” emigrati. Eppure Sommer non riesce a fare punto e a capo. L'orrido capitolo che ha alle spalle, l'omicidio cui ha assistito, il campo di concentramento, lo rendono comunque un sopravvissuto, uno che si è salvato, ma che porterà per sempre i segni delle sue insanabili cicatrici. La serenità d'un tempo sembra ormai svanita... insorge, invece, un subdolo, costante e logorante, desiderio di vendetta: non solo per lui stesso, per il padre, ma per il Bene contro il Male; eppure: “è come se, dopo un terremoto devastante, un bambino reclamasse il pallone che ha perso”. L'egoismo si contrappone (o vorrebbe contrapporsi) “al fremito, alla scintilla, alla vita che è ancora là […] che resiste […] come una candela fra le dita!” Ma d'innanzi alla sofferenza, quella vera – profonda – chi può dire cosa è meglio – è giusto – fare? Chi può condannare il desiderio forte e insanabile di giustizia o il puro, addormentato disincanto?
Erich Maria Remarque, grande scrittore tedesco, noto soprattutto per Niente di nuovo sul fronte occidentale, lavorò a lungo su questo testo senza concluderlo, animato da un'ansia incolmabile di perfezione. I dialoghi sono lampi, stralci fulminei e diretti di parole, così come i personaggi altri (Tannebaum, Robert Hirsch, Maria Fiola), quali satelliti che ruotano intorno all'unico, indiscusso, protagonista, sono timide meteore che non abbagliano, ma illuminano appena fiocamente l'esistenza del protagonista, così come il romanzo, che diventa volutamente un monologo, o meglio un dialogo a due voci tra Sommer e il lettore. Remarque punta ad arrivare dritto al suo pubblico, senza troppi cuori frapposti. Esiste una sola voce, orfana di patria, che spera invano di trovare un altro luogo in cui sentirsi a casa. Ma non esiste terra promessa che non sia solo un'illusione, che una volta conosciuta non sveli, proprio nel suo essere diventata familiare, tutta la sua terribile estraneità. Nella lontananza, nell'ignoranza dei luoghi e dei cuori che ancora non si conoscono, si può sognare e immaginare una familiarità che, invece, poi non hanno. Che non hanno mai avuto. Non c'è casa, ma solo la vita. Quella che resta oltre il dolore più atroce, oltre la vendetta e il disincanto. La tua vita, seppur brutale, seppur “spezzata”, ti appartiene ancora, e “seguirà il suo corso”, nel bene... e ancor più nel male.