
Scendendo verso la città di Torino lungo il Parco delle Rimembranze c’è un bivio a forma di T. Per diciotto lunghi anni è passato lì davanti almeno un paio di volte al giorno, prima di trasferirsi dalla casa in collina e tornare a vivere in città. In mezzo a quella biforcazione, una sera, incontra un tipo con un impermeabile blu e una cravatta scura, che si avvicina alla sua auto, riparandosi dalla pioggia sotto un ombrello mezzo distrutto e con almeno un paio di stecche storte. Quando lui abbassa il finestrino, riconosce l’uomo sotto l’ombrello. Si tratta della stessa persona che qualche mese prima lo ha avvicinato, mentre lui si trovava poco lontano da casa dei genitori, e gli ha chiesto dei soldi. Gli ha raccontato di essere senza portafoglio e senza benzina e di essere diretto in Alta Val di Susa, dove doveva prendersi cura della madre, gravemente malata. Gli servivano cinquemila lire, nulla di più. E gliele avrebbe rispedite appena giunto a casa. Tutta la storia puzzava di falsità, ma qualcosa lo ha spinto a voler credere a quel racconto, che aveva in sé qualcosa di fiabesco. E ora, quali probabilità c’erano che, dopo qualche mese, i due si incontrassero una volta ancora. Ma è andata proprio così. L’uomo con l’impermeabile ora si sporge con il viso verso di lui, che ha abbassato il finestrino dell’auto, e gli racconta una storia simile: questa volta il portafoglio glielo hanno rubato, ha finito la benzina e deve assolutamente tornare a casa, sempre in Alta Val di Susa. La madre, vera o falsa che sia, è morta. Questa volta lui ascolta l’intera storia con un po’ di impazienza, poi manda al diavolo l’uomo con l’ombrello sbilenco. Poi se ne pente. Quello che, in entrambe i racconti dell’uomo l’ha colpito, è il riferimento all’Alta Val di Susa: come fa a sapere che quel luogo tocca un nervo scoperto? Si tratta di un luogo imprescindibilmente legato a suo padre...
La mappa di una città, Torino, diventa palcoscenico sul quale si muovono i protagonisti del romanzo di Andrea Canobbio – scrittore e traduttore torinese, appunto, classe 1962 –, una coppia di giovani sposi, protagonisti felici del primo dopoguerra, degli anni del boom economico e della ripresa che diventano pian piano grigie e spente figure di mezz’età, annoiate e un po’ deluse dal corso degli eventi. Lei è un’appassionata d’arte, sensibile a tutto ciò che è bello e armonioso; lui è un ingegnere, capace di portare a compimento complicati progetti, ma assolutamente inefficace quando si tratta di dare solidità alle fondamenta del proprio nucleo familiare. Una vita a tre – nel frattempo alla coppia si è aggiunto il figlio, voce narrante della vicenda – che si trascina per oltre un trentennio e si insinua in un gorgo di depressione che, traendo origine dalla figura paterna, trascina con sé moglie e figlio. Per fare dunque pace con una figura paterna tanto tormentata occorre procedere in un viaggio a ritroso che, grazie all’aiuto della mappa della città, di alcune lettere e altrettante agende, conduce il protagonista accanto a quell’uomo così complesso ma così importante per la sua stessa formazione. Ricordi dolorosi si intrecciano ad aneddoti più leggeri; si ripercorrono angoli della città e stati d’animo, vie e ricordi, costruzioni e stralci di vita. Un viaggio che aiuta a ricomporre un dialogo complicato, ma mai del tutto interrotto; una sorta di romanzo familiare duro ma solido, zeppo di nascondigli da scoprire e strade scoscese da percorrere; una traversata che include cavalli e pesci, case stregate e monumenti di ogni tipo; una voce narrante che si intreccia a quella di chi non c’è più, ma è parte integrante di chi è rimasto; un’eredità da riconoscere e accettare per disegnare una nuova geografia di sé, più nitida; un risarcimento non del tutto completato, ma assolutamente necessario.