Salta al contenuto principale

La vendetta del professor Suzuki

vendettaprofsuzuki

Mite professore della provincia giapponese, Suzuki vede sconvolta la sua vita dall’incidente mortale improvvisamente capitato alla moglie, che muore sul colpo, investita volontariamente da un viziato e annoiato giovane ricco, avvezzo a tale tipo di “sport”. Una volta scoperto che l’autore è il figlio di un noto esponente della malavita giapponese, che cela i propri loschi affari dietro un’impresa che apparentemente smercia cosmetici, Suzuki si fa assumere da tale società, pur conscio non solo del rischio di essere scoperto ma di quello, ancor più tangibile, di essere costretto a compiere azioni criminali che non hanno mai fatto parte della sua vita né del suo spirito: ciò perché a prevalere sono la sua rabbia e il suo desiderio di vendetta, vendetta che Suzuki ritiene più semplice realizzare avvicinandosi, anche fisicamente, all’assassino di sua moglie. La funzione che inizialmente gli viene assegnata è quella di adescare giovani donne, con il pretesto di provare cosmetici: tali cosmetici però non sono altro che droghe pesanti, che le rendono tossicodipendenti nel giro di pochissimo tempo e in tal modo utilizzabili a qualsiasi scopo (prostituzione, rapimento per riscatto, e altro ancora). Le cose si complicano assai quando qualcuno sembra aver colpito, forse mortalmente, l’assassino di sua moglie ben prima che Suzuki vi si sia potuto anche solo avvicinare…

Kōtarō, che ha già scritto numerosi thriller tra i quali però, qui in Italia, è stato pubblicato il solo I sette killer dello Shinkansen (l’anno scorso sempre da Einaudi), sa indubbiamente coinvolgere il lettore grazie ad uno stile asciutto ed ad un ritmo serrato, pur se a volte improvvisamente interrotto da divagazioni ironiche o filosofiche di sicuro effetto comico. Un po’ come i dialoghi tra John Travolta e Samuel L. Jackson in Pulp fiction, tali digressioni spezzano la tensione in momenti “clou”, particolarmente drammatici o sanguinosi, quando appunto nessuno se lo aspetterebbe, facendo a volte pensare e, sempre, divertire. Veniamo allora a conoscere qualcosa dell’inconscio dello Spingitore (criminale la cui specialità è appunto spingere di nascosto la gente sotto macchine o treni), o della psicologia del Balena (che ha come caratteristica quella di riuscire a convincere sempre le proprie vittime predestinate a suicidarsi, col solo mezzo di un incontro e di un dialogo con lui), o infine delle incertezze “sociologiche” del Cicala (è lui a condurre il gioco o è una semplice pedina dei potenti?), un ben più “classico” killer a pagamento il cui ambito prediletto è sterminare famiglie innocenti. Il problema è che in tal modo la narrazione si fa a volte troppo dispersiva, ed il finale, rispetto alle attese che si creano, è davvero troppo semplice, stringato e tirato via. E soprattutto lascia troppi aspetti in sospeso per poter essere credibile (vi sono anche dei personaggi, in particolare due giovani che all’inizio della storia vengono rapiti da Suzuki, che non si riesce a capire alla fine della narrazione quale funzione effettiva avessero). È quasi come se l’autore, alla fine, ci dicesse che ha condotto le fila del racconto solo per mostrarci l’evoluzione della psicologia del protagonista, un po’ sul modello di Delitto e castigo di Dostoevskij (non a caso più volte citato nel corso del romanzo), e non tanto, invece, per terminare in modo compiuto e perfetto la narrazione degli eventi. Poiché, però, lo snodarsi dei fatti nel corso del libro e lo stile, così serrato e a volte emozionante, non lasciavano assolutamente presagire un mutamento di prospettiva così repentino, esso può senz’altro, almeno in parte, lasciare interdetto il fiducioso lettore.