
Johannesburg. L’auto di Julie si è fermata in mezzo alla strada e taxi, automobili varie, pulmini, furgoni e motociclette cercano di avanzare ostacolandosi a vicenda, coprendo d’insulti la giovane donna: “Muoviti, scema!”, “Idikazana lomlungo, le!”. Julie alza le mani e tiene i palmi ben aperti, in segno di resa. Poi, un paio di disoccupati di colore l’aiutano a spingere la macchina in una piazzola di scarico merci. Lei offre dei soldi, loro soppesano la somma e la ritengono adeguata. Julie trova un’autofficina alla prima traversa. Entra e nota quant’è ordinaria, “quasi un atterraggio nella normalità”: attrezzi sparsi, veicoli “come vittime derelitte e indifese”, un distributore d’acqua, bicchieri di plastica, una radio accesa ed un uomo sdraiato supino sotto un’auto, mezzo nascosto dalla scocca. Julie lo chiama, con voce timida. È giovane, lui, indossa vestiti da lavoro sudici e ha le mani unte d’olio: dal viso si capisce che non è uno di loro. Non è bianco, non è nero. Sa come far ripartire il motore, ma dice che c’è ancora un problema all’accensione. “Lei è Mr...?” domanda lei. “Chieda di Abdu” risponde lui. Ed è così che comincia tra la bianca ricca sudafricana e l’immigrato arabo: tra poco cominceranno ad amarsi e sarà “in quel modo che è un altro paese, un paese a se stante, né mio né tuo”...