
1966, Gexto, borgo dei Paesi Baschi spagnoli. La decisione del municipio di espropriare un piccolo appezzamento di terreno per costruirvi una scuola riporta all’ordine del giorno la storia di Rogelio Cerón, l’uomo solitario che, nel 1937, nel pieno delle stragi franchiste, si era insediato su quel terreno incolto trascorrendovi giorno e notte. Dapprima accovacciato su una pietra, poi seduto su una sedia, riparandosi dalle intemperie con un vecchio ombrello, l’uomo decise infine di costruirsi una baracca di tavole di legno coperta da lamiere. Rogelio Cerón è uno dei falangisti che, strada per strada, casa per casa, avevano trucidato e ucciso senza pietà alcuna gli uomini di Gexto, oppositori del dittatore Francisco Franco, comunisti o semplicemente sospettati di esserlo. Durante una di queste azioni Ramiro si trova faccia a faccia con lo sguardo del piccolo Gabino, un bambino figlio e fratello di due tra le vittime di quella notte, sguardo di orrore ma soprattutto di odio implacabile e promessa di vendetta. Il falangista viene colto dall’improvviso timore che il ragazzino, fattosi grande, lo ucciderà. E, col trascorrere del tempo, se ne convince sempre più, tanto da essere ossessionato da questo pensiero. Quando scopre che il bambino ha piantato un albero di fico sopra la fossa comune nella quale egli stesso ha dato sepoltura al fratello e al padre morti e che ogni notte torna ad innaffiarlo, Ramiro non riesce più essere lo stesso uomo, il falangista spietato, il fanatico di un’ideologia di morte. Sorveglia Gabino, ne teme il costante impegno di ogni notte e la futura vendetta, ma ne ammira profondamente la costanza e la pietà. Per questo cerca addirittura di favorire per lui una carriera ecclesiastica, pensando che gli uomini di Chiesa non possono praticare la vendetta, ma soprattutto comincia a prendersi cura di quel fico, un esile pollone che, negli anni, diviene un prospero albero, custode di una tomba ignota ai più…
L’albero della vergogna è un romanzo magistrale in cui si uniscono nefandezza e crudeltà, ma anche dolore ed espiazione. Basta uno sguardo, a volte, a legare indissolubilmente due persone coinvolte nella medesima tragedia e percorse dallo stesso orrore. L’orrore, la paura, la vendetta legano indissolubilmente il destino di Rogelio, l’assassino, a quello di Gabino, innocente orfano precoce. Il fico le cui radici abbracciano i corpi delle vittime cresce almeno quanto la metamorfosi di Rogelio, che si obbliga a prendersene cura giorno e notte. Il falangista ha cambiato casacca, ma anche pensiero. Vive non più solo di paura, ma anche di espiazione, tanto da essere creduto un santone dalla gente che compie presso il suo albero e la sua baracca improbabili pellegrinaggi. Custode silenzioso di un luogo che non deve essere profanato, Rogelio non abbandonerà quel piccolo pezzo di terra fino alla fine dei suoi giorni, che sarà tragica, come è nell’ordine delle cose per una persona con i suoi trascorsi. Il romanzo conduce il lettore dentro le drammatiche vicende della guerra civile spagnola, svelata in tutto il suo assurdo, crudele squallore da Ramiro Pinilla (1923 – 2014), scrittore di grande profondità e spessore paragonato dai suoi connazionali a Faulkner e García Márquez, tradotto qui per la prima volta in Italia. Il fuoco sopito e le braci ancora calde di una guerra civile che mobilitò, sull’uno e sull’altro versante, il mondo intero rivivono in questo romanzo che offre al lettore l’occasione di riflettere sulle conseguenze inestinguibili della guerra, sulla persistenza negli anni dell’odio e della paura, ma anche sulla possibilità di redenzione. Fondamentale, però, per la pacificazione e il perdono, è che i fatti, le responsabilità e le colpe vengano detti e riconosciuti, altrimenti, come spesso accade, il buio prevarrà sulla luce, l’oblio sulla conoscenza. Ancora troppi, infatti, “sono stati concordi nel silenzio: nonne, madri, sorelle, zie che tenevano la bocca chiusa nell’angosciosa necessità di non nominare il terrore per cancellarlo. Oggi, molti anni dopo, il sequestro e l’assassinio di familiari continua a essere un argomento tabù nelle cucine; figli e nipoti delle nuove generazioni vogliono sapere dettagli che nessuno gli racconta, e così, a loro volta, tacciono”.