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L’altro capo del filo

L’altro capo del filo

La situazione è tesa a Vigata a causa dei continui sbarchi che ogni notte riversano centinaia di migranti malmessi nel porto; gli uomini del commissariato locale, messi a disposizione a supporto di una squadra speciale inviata sul posto per seguire le difficili operazioni di sbarco e accoglienza, non ce la fanno più a lavorare durante il giorno e fare gli straordinari al porto di notte. Il lavoro è duro, l’attenzione deve essere massima per evitare disordini e individuare possibili infiltrazioni di terroristi. La cosa più difficile da sopportare per Salvo Montalbano, più dei due scafisti responsabili dello stupro della minorenne durante una delle orribili traversate, è lo sguardo di quei poveri disperati, notte dopo notte. “Te l’addimanni mai indove stanno i mandanti di ‘ste stragi di povirazzi? Tutti alla comunità europea a proponiri linee guida sull’immigrazioni durante ‘na bella mangiata di linguate nostrane”. In una di queste dure notti al porto ci mancava la notizia improvvisa della morte di Elena Biasini, la bella sarta poco più che quarantenne che il commissario ha conosciuto qualche giorno prima a causa di una delle solite idee terribili della fidanzata Livia: vuole trascinarlo ad un venticinquesimo anniversario di matrimonio di amici e per l’occasione lui deve farsi cucire un abito nuovo. Impossibile tirarsene fuori stavolta. Eppure l’incontro con Elena gli era piaciuto: lei era elegante e solare e parlare con lei nel suo negozio dall’atmosfera così calda e confortevole era stato bello. Ora la donna è stata uccisa brutalmente, trucidata con ventidue colpi di forbice che le hanno stranamente risparmiato soltanto il seno. Le modalità efferate fanno pensare subito ad un delitto passionale o comunque d’impeto, ma nonostante l’apparente disponibilità emerge che Elena era una donna particolarmente riservata, soprattutto riguardo un certo periodo della sua vita. Le indagini dunque sembrano subito difficili e si estendono all’unica parente, ai lavoranti della sartoria, ai suoi amanti, ai suoi amici – il dottor Osman e Meriam, anche loro immigrati ma da tempo integrati nella comunità e prezioso supporto al lavoro di Montalbano e dei suoi uomini -, e persino al suo gatto Rolando. Cosa nascondeva la bella Elena nel suo passato? La soluzione è dall’altra capo del filo, quello di un gomitolo di lana tra le zampette di un gatto, quello che si srotola e chiede di essere seguito in un sogno determinante e premonitore, o quello della trama di una stoffa preziosa come il raro cotone del Libano. O forse dall’altro capo del filo del telefono, anche al tempo dei cellulari, che un filo vero non ce l’hanno…

Nuova indagine per il commissario Montalbano nel 100° libro di Andrea Camilleri (il 24° dedicato a questo amatissimo personaggio) che a più di novant’anni e in preda agli acciacchi dell’età continua a scrivere imperterrito, questa volta ringraziando esplicitamente nella nota finale Valentina Alferj che, oltre ad aver materialmente scritto il romanzo a causa della sopraggiunta cecità del Maestro, è intervenuta anche “creativamente alla stesura”. Qualcuno imputa a questo intervento esterno qualche sbavatura nella trama e nei dialoghi, altri semplicemente credono che lo scrittore sia ormai troppo anziano e che stia raccontando un Montalbano troppo lontano da quello conosciuto dai lettori in precedenza. La realtà è che il personaggio più noto di Camilleri sta invecchiando insieme al suo autore ed è vero anche che, se il commissario appare stanco o se alcune sue riflessioni sono tipiche di un “sissantino” quale ormai è di fatto, la cosa è piuttosto un merito e un esempio di coerenza narrativa. È ancora vero che l’intreccio appare non troppo lineare e che il finale può suonare inconsueto al lettore, ma anziché debole sembra avere piuttosto un curioso sapore retrò grazie all’espediente della lettera confessione che ricorda un po’ un giallo d’altri tempi. Il fatto è che l’attenzione dell’autore da diversi romanzi a questa parte pare spostata più che sul plot poliziesco vero e proprio all’intima evoluzione del personaggio principale, cui pure sono sempre affiancati gli irrinunciabili comprimari, primo fra tutti uno strepitoso Catarella più in forma che mai. C’è sempre più uno sguardo mesto alla realtà storica e sociale contemporanea, questa volta a quella dei migranti che un po’ appare slegata dalla trama, è vero, eppure altrettanto importante. Bellissima la pagina dedicata al racconto del sabir, una antica lingua comune che un tempo parlavano i pescatori del Mediterraneo che così si capivano tutti tra loro, una lingua che “va a sapiri com’era nasciuta e va sapiri come aviva fatto a moriri”. Uno scrittore cambia, vivaddio, non gli si può chiedere di essere uguale a se stesso lungo trent’anni di scrittura, perché cambia l’uomo, cambia il suo sguardo sul mondo e nei confronti della vita. È la cosa più naturale che esista, come è naturale che le storie che racconta seguano questo mutare, altrimenti suonerebbero false. È ovvio poi che può continuare a piacere o meno, questo è quanto, a sua volta, spetta legittimamente al lettore. Ciò che non cambia è la lingua sempre straordinaria e divertente che Camilleri usa e la capacità di far sorridere. La novità è un reiterato omaggio ad Antonio Manzini e al suo Rocco Schiavone, per alcuni una “marchetta” a Sellerio, probabilmente un sincero omaggio ad un collega stimato come è stato in passato nei confronti di altri autori come ad esempio Manuel Vázquez Montalbán; più frequenti del solito poi le citazioni “colte” di musica e libri sparse qua e là nel racconto. Sempre gustosi anche i piatti che Montalbano e Camilleri ci fanno assaggiare ad ogni lettura, stavolta addirittura con una deliziosa incursione in Friuli e nella sua cucina, frico compreso. Nel complesso quindi niente di sorprendente o straordinario, ma una indagine di Montalbano non la si può proprio perdere. Mai.