
L’oramai trentatreenne Alexander Portnoy, figlio ribelle di una coppia di osservanti ebrei piccolo-borghesi, ripercorre sul lettino dello psicanalista tutta la propria vita. Dall’infanzia passata nei quartieri giudaici di Newark, condizionata da una madre soffocante e iperprotettiva e da un padre laborioso affetto da stitichezza cronica, fino ai primi sintomi di un’erotomania caratterizzata da un incontrollabile impulso masturbatorio e da una sfrenata passione per i genitali femminili, destinata a scatenare in lui una interminabile sequela di sensi di colpa e complessi edipici in grado di rendere estremamente conflittuali i suoi rapporti con l’altro sesso. In un primo momento per l’incombente riprovazione materna, e poi a causa del suo spirito libertario espletato soprattutto nelle stimate vesti di commissario aggiunto della Commissione per lo sviluppo delle risorse umane del Comune di New York...
Con Lamento di Portnoy, pubblicato per la prima volta nel 1969 (e portato sugli schermi nel 1972 da Ernest Lehman nel mediocre “Se non faccio quello non mi diverto”), Philip Roth – vincitore del Premio Pulitzer 1997 con Pastorale americana - realizza il primo capolavoro della sua fortunata carriera. Sebbene ormai il termine “capolavoro” venga usato spesso a sproposito, in questa occasione il suo utilizzo appare del tutto fondato, anche se probabilmente, a un lettore contemporaneo, circondato un po’ ovunque da trasgressioni a buon mercato, la grande carica trasgressiva di questo terzo romanzo dello scrittore americano potrebbe risultare un po’ datata. Tuttavia un giudizio del genere sarebbe assai ingeneroso data la statura letteraria di Roth - indicato più volte fra gli scrittori meritevoli del Nobel - dimostrata anche in anni più recenti, nonché per la feroce critica a 360° contenuta fra le pagine di questo esplosivo romanzo che risulta al contempo sia un atto di accusa contro quel mondo ebraico-americano più reazionario che lo scrittore conosce benissimo (un microcosmo che, esaltando le proprie virtù etiche e religiose, entra in competizione con l’intera umanità e finisce per chiudersi in se stesso), sia contro quel pregiudizio antisemita largamente diffuso negli Usa del secondo dopoguerra e spesso coltivato, più o meno inconsciamente, negli ambienti cattolico-protestanti. Con situazioni memorabili e con un tono perennemente in bilico tra commedia e tragedia, Roth riesce a trasmettere al lettore (come riusciva a fare con lo spettatore il quasi coetaneo Woody Allen in campo cinematografico) il senso di spaesamento vissuto dal protagonista (e suo alter ego) Alexander Portnoy, frutto di quel clima che si respirava alla fine degli anni ’60, dominato dal forte influsso della psicanalisi, da costumi sessuali sempre più liberi e da un laicismo a volte esasperato, diretta conseguenza di quella sorta di puritanesimo bipartisan imperante nei decenni precedenti sia sul versante protestante che in quello ebraico.