
La frana ha distrutto il ponte sospeso, la via più breve per arrivare in città. Lo stretto, disconnesso sentiero lungo il crinale della montagna è l’unica strada rimasta accessibile. La scuola elementare è stata chiusa, la posta non è più arrivata. I bimbi si sono ritrovati liberi dalle lezioni anzitempo. Liberi di giocare, di entrare nelle tane dei cani selvatici per rapirne i cuccioli. Liberi di disputarsi i frammenti delle ossa dei morti rinvenuti nel forno crematorio all’aperto, per farne medaglie con cui decorarsi il petto. C’è la guerra, quella parola ha significato solo l’assenza dei giovani, e le scarne, sporadiche lettere con le notizie dei compaesani caduti sul campo; almeno fino all’alba dello schianto, quando gli adulti hanno imbracciato le armi, e sono andati sulla montagna, dove è precipitato un aereo nemico. Sono tornati al tramonto, attorniati dai cani latranti. Assieme a loro, circondato, entrambe le caviglie incatenate ad una trappola per cinghiali, un soldato di colore, vestito di una divisa color cachi. Due dei suoi compagni sono morti. Lui è sopravvissuto perché si è lanciato con il paracadute. Il prigioniero, dicono gli adulti, sarà tenuto segregato in una cantina, in attesa che le autorità cittadine dispongano il da farsi; nel frattempo verrà “allevato”…
“…Il soldato negro guardò la scatola degli attrezzi, poi ci fissò negli occhi. Noi lo osservavamo, tremanti di gioia. «È come una persona», mi disse a bassa voce Labbroleporino e io, dando un colpo sul posteriore a mio fratello, mi sentii orgoglioso e felice e risi fino a contorcermi. Sospiri di meraviglia dei bambini entravano vigorosi dal lucernario, come folate di nebbia […] Quando ci sedemmo accanto a lui e ci guardò, i suoi grossi denti gialli si scoprirono e le sue guance si distesero, e noi scoprimmo con sorpresa che anche i soldato negro sapeva ridere. Capimmo allora che eravamo legati a lui da un vincolo inaspettato, profondo e saldo, quasi “umano”. Non potevamo credere che quel negro, simile a un animale domestico, una volta era stato un soldato che combatteva in guerra”. Kenzaburō Ōe, classe 1935, è nato a Ōse, un villaggio della prefettura di Ehime, nell’isola di Shikoku, a poco più di 120 km in linea d’aria da Hiroshima. Nel corso degli anni ha sostenuto con forza posizioni pacifiste, è stato un convinto antinuclearista, attirandosi una certa ostilità da parte degli ambienti governativi nipponici. Nel 1994 è stato insignito del premio Nobel per la Letteratura. Ne L’animale d’allevamento (Shiiku il titolo originale) lo scrittore esplora con disincanto e malinconia i temi della scoperta dell’Altro - del nemico, in questo caso -, della perdita dell’innocenza, della naturale capacità degli esseri umani di creare legami, basati sull’istintivo riconoscimento dell’umanità reciproca, e della loro altrettanto innata, orrenda, attitudine a distruggerli, a volte nel volgere di brevi istanti. Nella novella è l’invisibile entità dello Stato a giocare il ruolo di un malvagio - o forse solo indifferente - deus ex machina: da una lato incapace di assicurare i servizi essenziali alla piccola comunità del villaggio, e di prendere in consegna direttamente un prigioniero di guerra, dall’altro determinante nel provocare un mostruoso effetto domino, che sfocerà in un epilogo segnato dalla violenza cieca degli istinti, e in un drammatico rituale di passaggio all’età adulta del piccolo protagonista. Apparsa nella raccolta Insegnaci a superare la nostra pazzia (Garzanti, 1992), pubblicata per la prima volta nel 1958, la novella, all’epoca, valse all’autore il prestigioso Premio Akutagawa. Kenzaburō Ōe è venuto a mancare nel marzo 2023.