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L’arte della guerra zombi

L’arte della guerra zombi

Chicago, marzo 2003. Joshua Levin (famiglia di origini ebraiche, infanzia a Wilmette, genitori divorziati, università alla Northwestern, specializzazione in cinema, corso complementare di filosofia) si guadagna da vivere facendo l’insegnante d’inglese per stranieri, ha una disinibita fidanzata nippo-americana, Kimiko, e un padrone di casa che con la scusa di un disturbo post-traumatico da stress risalente ai tempi in cui era un marine durante Desert Storm dà spesso di matto ed entra di nascosto in camera sua per annusargli la biancheria intima. Il sogno di Joshua è scrivere per il cinema, così passa giornate intere al Coffee Shoppe con il suo laptop – grazie a Dio nel bar la connessione internet non c’è: se no figurati, perderebbe solo tempo – ad abbozzare sceneggiature basate su spunti abbastanza deliranti. Per esempio un cieco e una cieca che si innamorano uno dell’odore dell’altra; un supereroe in pensione e un insegnante sottopagato e frustrato che si alleano per combattere il malvagio sindaco di Chicago; un disadattato nerd che si fa chiamare DJ Spinoza e che sogna di “suonare al ballo della scuola e lasciare di stucco tutti quegli stronzi”; un lanciatore di baseball gay che vende l’anima al Diavolo per giocare nelle World Series ma quello in cambio gli chiede di diventare etero… roba così. Mentre guarda fuori dalla vetrata del locale, nota un gruppo di cadetti dalle nuche rasate che attraversa la strada sulle strisce pedonali. Gli torna alla mente la scena del film Zombi in cui i morti viventi barcollano in gruppo verso il centro commerciale. Comincia a fantasticare a occhi aperti e dopo qualche minuto apre un file nuovo di Final Draft e scrive il titolo dell’ennesima sceneggiatura: Guerre zombi, poi rimane a guardare in silenzio lo schermo bianco. Eh. Prima di scrivere ci vuole qualcosa da mangiare, l’ipoglicemia non va d’accordo con la creatività. Joshua si alza e si mette in fila al bancone, prende un cappuccino e una fetta di torta alla carota e torna a sedersi al suo tavolino. Lo schermo è ancora bianco, le idee non arrivano e così chiude il file, poi termina il programma e infine spegne il computer e lo ripone nella custodia. È un problema, perché è lunedì e il lunedì sera Joshua frequenta il workshop “Scrivere per il cinema II” a casa dell’antipaticissimo, sprezzante Graham e deve leggere e discutere davanti a tutti qualche pagina di una sceneggiatura. Che non ha scritto…

Il bosniaco Aleksandar Hemon, nativo di Sarajevo, nel 1992 si ritrovò a visitare Chicago proprio mentre iniziava il sanguinoso assedio (destinato a durare ben 1425 giorni) della sua città natale. Da turista si trovò così all’improvviso a ventotto anni costretto a diventare un rifugiato. Hemon comunque non si perse d’animo e – mentre studiava forsennatamente la lingua – si arrangiò con lavori saltuari finché dopo tre anni si sentì abbastanza sicuro del suo inglese e cominciò a pubblicare racconti autobiografici su riviste prestigiose come “New Yorker” ed “Esquire”, poi alcuni applauditi romanzi: oggi insegna Non fiction e Fiction Writing al Columbia College di Chicago. L’arte della guerra zombi (da sottolineare il vezzoso utilizzo del termine zombi, ormai desueto nel campo dell’entertainment, invece di zombie) è il suo primo libro in cui i Balcani non c’entrano niente e che non ha nulla di autobiografico, anche se l’Est Europa fa capolino attraverso gli allievi di Joshua: un gruppo di bizzarri russi e una bosniaca supersexy, Ana. Seguiamo il protagonista e i suoi amici – tutti sembrano usciti da Clerks, in un tripudio di citazionismo di B movies, fumetti e rock – e in parallelo le avventure del brutale Maggiore Klopstock in Guerra zombi, la sceneggiatura di Joshua che lentamente prende forma. Per Levin – contrariamente a quanto accade per Hemon e per altri personaggi del romanzo – la guerra è solo fiction, invenzione, iperbole. Ma nella primavera del 2003, quando il romanzo è ambientato, gli Stati Uniti stavano invadendo l’Iraq (le citazioni in esergo sono di Baruch Spinoza – idolo del protagonista – ma anche, indicativamente, di George W. Bush): “Questo è il vantaggio e lo svantaggio di, sai, crescere in America”, ha dichiarato lo scrittore ad Arun Rath di “NPR” durante un’intervista-podcast. “È facile pensare che tutto sia lontano da noi qui. Che le cose brutte accadano laggiù. Ogni tanto cose brutte attraversano l’oceano (…) e poi siamo sotto shock. E quindi volevo gettare Joshua in una situazione in cui avrebbe dovuto fare i conti con tutte le possibilità inaspettate”.