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L’avventura terrestre

L’avventura terrestre

L’ombra fa la sua comparsa nella meno opportuna delle circostanze, durante un fugace amplesso agostano consumato all’interno di una cabina balneare. Stretto alla barista, il cuore del giovane perde un battito. Tutto, in quell’uomo misterioso sbucato dal fondo della notte, urla riprovazione. Una presenza intrusiva, destabilizzante come l’acufene da cui la vicenda ha inizio, come un segnale radio proveniente da una galassia lontana, che permea lo spazio, reclama un destinatario. Chi è quest’uomo che scivola come olio tra le pieghe di un mondo che sembra non accorgersi di lui, di chi sono gli occhi severi puntati addosso al giovane come pugnali, pronti a rinfacciargli chissà quale inconfessabile colpa? Preme per rivelarsi, questo aborto domiciliato nella caligine che è ricettacolo assolutorio di ogni oscenità: essere non gli è più sufficiente. Entrare e uscire a snervante piacimento dalla vita del giovane, compiere impunito le proprie furtive scorribande, come chi invade il campo a tradimento per fermare la partita. Scombinare le coordinate dell’ecosistema nel quale l’arco di vita della sua vittima progredisce per arrogante accumulazione di volti, di fatti, di luoghi. Inquietante come un fantasma, onnipresente negli snodi cruciali di un’esistenza, l’eco dei quali si allarga in infiniti cerchi concentrici che lambiscono la vita della controparte. Un confronto muto lungo una vita tutta votata all’apparire, condotto con la spavalda asimmetria di uno stalker ante litteram che giochi al gatto col topo con la vittima, con la sicumera furiosa di chi ha sposato le ragioni del massimalismo più intransigente, del giocatore di scacchi intenzionato ad ammazzare la partita. Di chi ha un conto in sospeso che intende chiudere, di chi vuole mettere a tacere un silenzio assordante. Il proprio, l’altrui. Il mistero aleggia in ugual misura su entrambi i dialoganti, avanza fulmineo alla velocità con cui scorre il carosello di luoghi nei quali l’abitare e il raccontare si fondono e fondano spazi, come se (r)esistere in filigrana a una vita piombata nel baratro della normalità fosse l’ultima opzione percorribile perché l’universo non abbia a sgretolarsi, in un’estrema salvifica sintonia di epifanie di senso conficcate nella tridimensionalità feroce di un passato che ha gli occhi di una madre, di una moglie, di un’amante cui tanto si è rivelato, altrettanto taciuto. Che inchiodano l’ignara controparte al legno di una profezia tagliente come un bisturi. A una diagnosi che non lascia scampo, che recide il “prima” dal “dopo”, e che sovverte gerarchie e priorità...

Questa è una storia senza nome, spietata, un’allucinazione che mette a dura prova il bisogno tutto umano di trovare una spiegazione a ciò che accade, di procedere con cautela e ponderazione nel collezionare riscontri su riscontri, prove e controprove. Una storia “gravitazionale”, fatta di corpi sorpresi in un inesorabile rincorrersi nel tempo e nello spazio, col terrore di incontrarsi, con l’angoscia di perdersi. E di scoprirsi, nell’equivoco spiraglio semantico racchiuso tra l’aprirsi e l’esporsi, tra il compiere il primo e l’ultimo passo. Una scrittura nervosa, ossessiva, quella dello scrittore triestino finalista al Premio Strega con La sposa, rappresa attorno a coaguli narrativi disarticolati, orientarsi tra i quali non sempre risulta agevole. Organizzati per salti temporali, come a prendersi gioco della squallida inadeguatezza di questa variabile, della ridicola ostinazione con cui ci si affanna a costruire cornici attorno a quadri che sono poco più che scarabocchi, sentenze per imputati contumaci. Una storia che riscrive le coordinate del narrare, capace di portare sulla pagina il mistero fosco e prodigioso della malattia, del dolore, del disfacimento, nei quali si mostra senza veli l’insensatezza di una vita spesa a sfuggire al laccio di una definizione, un eterno sofferto traslocare che non sfocia mai nell’abitare ma che affoga nell’estasi inebriante dell’edificazione di un “castello” kafkiano del quale potersi dire orgogliosi sudditi, di cui “non si possiedono le chiavi”. Di quanto il sollievo illusorio della cupidĭtas dissolvi possa toccare il cuore dell’animale umano quando questo inciampa nella propria finitezza, quando “sa di morire”. Svelargli il segreto dell’abitare un presente scollegato, un “puntino sul radar non indicativo di nulla”, che nulla ha da recriminare dal passato, nulla a pretendere dal futuro. Di un angolo di paradiso in terra, stretto tra le siepi della memoria di chi ci ha voluto bene.