
31 ottobre 2014. Una Logan attraversa una steppa spettrale, destinazione Lugansk. A bordo della Logan Sébastien Gobert e Pierre Sautreuil, corrispondente freelance di 21 anni e voce narrante. Hanno il compito, accolti dal “confortevole” Rendez-vous Hotel, di scrivere un pezzo sulle elezioni a Lugansk, evento che riempie in modo inaspettato le strade della città devastata dai bombardamenti. Igor’ Plotnickij il favorito. Exit poll di dubbia democraticità lo danno già vincitore, la sua elezione però lascia l’amaro in bocca a più di qualcuno, signori della guerra che spadroneggiano nell’oblast in primis. Il comandante filorusso “Batman” – al secolo Aleksandr Bednov – in primis, e la sua contrarietà è particolarmente sonora. Pierre, che nonostante la giovane età ha ormai nel sangue lo spirito inquisitore del reporter, non può esimersi dal raccogliere la sua testimonianza, e si mette in contatto con il portavoce di “Batman”, un mercenario che ha assunto il diffusissimo nome de “il Gatto”. Incredibilmente, “il Gatto” risponde dopo appena tre squilli, ed è ben felice di incontrare il giovane reporter francese. “Saranno felici di dirle tutto il male che ne pensano” annuncia sprezzante Jurij Beljaev, inconsapevole quanto Pierre che ben presto l’interesse del giovane francese verterà sulla sua vita e carriera...
Tra i finalisti dell’edizione 2023 del Premio Terzani, quello di Sautreuil è un romanzo – reportage? Diario? – difficile, a tratti scomodo, e il conflitto che lo stesso autore vive è palpabile pagina dopo pagina. In capitoli brevi, brevissimi, a tratti veri e propri trafiletti, Pierre Sautreuil ripercorre il suo incontro con Jurij Beljaev, con il quale instaurerà un rapporto di amicizia che stupisce persino il giovane reporter. Beljaev è un ultranazionalista, un estremista con più di un cadavere sulla coscienza, una volta poliziotto poi diventato mafioso, imprenditore fallito, e ora miliziano al fianco delle forze filorusse nel Donbass. Non esattamente il proverbiale stinco di santo. Eppure, come Pierre, il ritratto che viene fornito affascina per l’incredibile mediocrità di Beljaev, ormai vecchio, latitante divorato dalla paura di venire arrestato, se non addirittura freddato senza troppi complimenti. Non viene invocata pietà o comprensione, Beljaev non viene mai giustificato, ma è costante l’impegno dell’autore nel tentare di circostanziare nella cornice della caduta dell’URSS e degli anni a seguire il cursus honorum di un uomo che, in un altro momento storico e in un altro paese, sarebbe presumibilmente rimasto nell’anonimato di un bar a sproloquiare di nazionalismi e della grandezza dei bei tempi andati. Un esempio di banalità del male che ha però trovato terreno fertile per autoalimentarsi, in una parabola conclusasi di fronte a un registratore tenuto in mano da un reporter appena ventunenne, in uno squallido appartamento di San Pietroburgo.