
Le manette gliele hanno tolte appena arrivata, ma Miriam continua ad avere la sensazione di avere i polsi ancora legati; sente il metallo stringerla e i movimenti le costano una grande fatica. Il mondo le pesa sulle spalle più del solito e trascina i piedi sul pavimento mentre cammina a fianco della guardia penitenziaria, un uomo che procede a fatica nel corridoio e mostra di non avere alcuna considerazione delle detenute. Arrivata davanti alla stanza del direttore, la guardia le afferra il braccio e a Miriam manca al fiato. Succede sempre così, quando un uomo la tocca: si sente una preda e vorrebbe allontanarsi. Ma pensa a suo figlio Diego che è rimasto nel cortile del carcere, a giocare con quel camion rosso a cui manca una ruota posteriore ma dal quale non si separa mai, e si sforza di restare zitta e buona. Il direttore Giacomo Parisi - mingherlino ed emaciato, sembra reggersi in piedi a stento - le spiega che l’Icam non è un carcere normale, ma deve essere vissuto come una grande famiglia, in cui il compito principale del personale è quello di aiutare ciascuna delle detenute, prendersi cura dei loro figli e rendere la loro permanenza, e soprattutto quella dei bambini, meno traumatica possibile. A Miriam tutta la gentilezza di Parisi suona strana. Non è abituata alla gentilezza, lei; è da sempre convinta che dietro la cortesia siano nascosti pensieri cattivi e l’unica cosa che si aspetta dagli altri è essere tradita. Ma, a dir la verità, questo Parisi sembra diverso. Lui non sta sbirciando la sua scollatura, ma continua a spiegarle con dolcezza che le celle, in quella realtà che lui nomina detenzione attenuata, vengono chiamate “appartamenti.” E infatti ognuno ha camera da letto, cucina, bagno. E ci sono anche le finestre. Hanno le sbarre, però, che sono purtroppo necessarie. In quel luogo i figli delle detenute hanno un cortile a disposizione dove possono giocare in libertà e sono seguiti quotidianamente nelle loro attività, mentre le madri imparano un mestiere, che può rivelarsi utile anche per il loro futuro, una volta concluso il periodo di detenzione...
Un luogo, che per molti è il peggiore degli incubi, diventa per alcune anime fragili - incapaci di difendersi o troppo delicate e leggere da imprimere la loro traccia sul sentiero della vita - molto meglio della casa da cui sono state strappate. Una sopravvivenza dignitosa, fatta di pochi amici ma, per fortuna, anche di pochissimi nemici, in una cella in cui la porta resta aperta durante il giorno - ma la finestra ha le sbarre - per permettere ai bambini di uscire a giocare in cortile, dimentichi per un attimo della realtà da cui si proviene e della situazione contingente in cui si è finiti. Lorenzo Marone - scrittore partenopeo che sa parlare al cuore del lettore attraverso racconti che emozionano senza mai impietosire - questa volta si è superato. È riuscito, mediando una sua esperienza diretta, a rendere il quadro vivido, sofferto e struggente di una coralità di personaggi - che ruotano intorno a una madre e a un figlio, Miriam e Diego - colta nel momento in cui si interroga su cosa significhi essere davvero liberi. Marone entra quasi in punta di piedi all’interno della struttura carceraria e racconta gli ultimi, quello scampolo di umanità ferita - costretta spesso a pagare per colpe che non ha davvero commesso - che non sa né fidarsi né affidarsi, che ha conosciuto il rifiuto, l’isolamento, la violenza e non sa se ha in sé ancora spazio per l’amicizia, l’amore, la solidarietà. Bellissime le figure che abitano le pagine di Marone: Miriam e la sua durezza, sotto cui si nasconde una profonda fame d’affetto, Amina che fugge da un destino già segnato, Melina che vuole cambiare l’ordine del mondo, Greta che cerca come può di riparare le sue ferite. E su tutti Diego, che sa leggere le persone come se fosse dotato di un potere magico, che non ha artigli e non si sa difendere ed è alla continua ricerca di un abbraccio vero, nonostante Napoli, la sua arroganza e i suoi evidenti contrasti. Marone ha saputo creare poesia pura, ha saputo cogliere la fragilità nascosta dietro ogni risposta sgarbata e ogni accesso d’ira. Il dialetto che nutre i dialoghi dei personaggi è sgangherato come chi lo utilizza, e non potrebbe essere altrimenti. La speranza che nasce dal dolore, i gesti che annullano le distanze e il desiderio di ricominciare sono la spinta che rende il racconto universale e bellissimo. Viene voglia di ringraziare l’autore, perché in ogni riga del romanzo c’è davvero molto da imparare.