Salta al contenuto principale

Le paludi di Hesperia

Ilio è infine caduta. Per sette notti e sei giorni la città è stata arsa dalle fiamme e ora i pochi abitanti sopravvissuti alla strage giacciono “ammassati nel campo, come pecore nell’ovile”, aspettando di essere assegnati ai vincitori come prede di guerra. I capi dell’esercito acheo, riuniti nella tenda di Agamennone, stanno decidendo se ripartire subito dalla terra troiana per fare ritorno in Grecia oppure se prima sia necessario aspettare, dedicando il giusto tempo all’offerta di sacrifici d’espiazione per “il molto sangue innocente versato”. Discutono a lungo, ma non riescono a trovare un accordo: Nestore, Diomede, Ulisse e Menelao decidono di partire comunque subito, Agamennone e gli altri di restare. La flotta achea fa tappa per la notte all’isola di Tenedo, e qui Ulisse si pente di essere partito e — nonostante gli altri lo scongiurino di non tornare a quelle coste maledette — decide di far invertire la rotta alle sue navi. Nessuno lo vedrà più. Ma anche il resto della flotta achea non ha vita facile. Una terribile tempesta la investe: Aiace Oiléo muore tra i flutti (c’è chi dice ucciso da Poseidone, che lui aveva bestemmiato). Il resto delle navi si dirige verso casa, ma in una notte senza luna Menelao e i suoi scompaiono senza lasciare traccia. Nestore giunge “salvo al Pilo sabbioso con gli uomini, le navi e il bottino dopo aver doppiato il capo Malea”, destinato a regnare tranquillo per anni. Diomede approda alla spiaggia della sua Temenion nel pieno della notte: nessuno sa del suo arrivo, non ha mandato araldi in avanscoperta ricordando un inquietante avvertimento di Ulisse, “Non fidarti della tua regina”. Con Stenelo, suo amico inseparabile, si reca di nascosto al suo palazzo di Tirinto, entra da un passaggio segreto che solo lui conosce e sbirciando nella sua camera da letto scopre che la moglie Egialea, la stupenda Egialea (“il suo seno era bianco e duro come l’avorio tagliato, il suo ventre ardeva sempre di desiderio, la sua bocca sapeva suscitare la febbre, oscurare la mente, donare l’oblio”) ha un amante e che i due sanno dell’arrivo delle navi di Diomede e progettano di assassinarlo…

Hesperia (Εσπερία) era il nome con cui gli antichi Greci chiamavano le “terre occidentali”, dove il sole tramontava, senza distinguere naturalmente tra Italia e Spagna, entrambe ancora inesplorate per loro. Il nome nei secoli successivi ebbe fortuna presso i poeti latini per i quali indicò soltanto l’Italia. Valerio Massimo Manfredi, in quello che è uno dei suoi romanzi storici più intensi e meglio riusciti, racconta di come una spedizione di guerrieri achei al seguito del re Diomede, reduci dall’assedio di Troia ma impossibilitati a tornare a casa ad Argo a causa di una sanguinosa congiura, sbarchi in Italia. Qui si scontra con diversi popoli italici, fronteggia la sinistra invasione dei letali Dor ma soprattutto intercetta Enea, il principe troiano che proprio in Hesperia si è rifugiato. Il cuore della narrazione (molto liberamente, sia chiaro) è rappresentato dalle storie dei poemi perduti del ciclo troiano: “In particolare”, spiega l’autore nella postfazione, “di quelli che narravano i ritorni (Νόστοι) degli eroi della guerra di Troia”, la vasta lacuna tra la fine della guerra e i libri III e IV dell’Odissea, in cui la terribile sorte dei sovrani reduci pare venire “normalizzata” grazie soprattutto all’azione del re spartano Menelao. Manfredi racconta feroci lotte dinastiche (una inquietante “congiura delle regine” che immagina addirittura coordinata da un reame greco all’altro) e dipinge con bravura una affascinante ultima età del bronzo in Italia. Un po’ Troy, un po’ Il primo re.