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Le parole

Le parole

Alsazia, anno 1850. Un maestro elementare è costretto a diventare droghiere. Decide che “per compensazione” ci sarà un pastore in famiglia. Tra i suoi figli, Charles se la svigna e Auguste si fa commerciante. La scelta ricade su Louis, che a sua volta mette al mondo Albert Schweitzer, pastore. Il fuggiasco Charles – che dal canto suo “aspirava consacrarsi a una forma attenuata di spiritualità, a un sacerdozio che gli permettesse le cavallerizze” – sceglie la strada del professorato, decide di insegnare tedesco. Sposa Louise Guillemin, figlia di un avvocato cattolico, che detesta profondamente la “turgida vita, rozza e teatrale, degli Schweitzer”. La loro figlia minore, Anne-Marie, conosce Jean-Baptiste Sartre, ufficiale di marina. Sartre la sposa, le dà un figlio e muore di febbre intestinale. Madre e figlio tornano a vivere dagli Schweitzer. È in quella casa che il piccolo Jean-Paul trascorre la sua infanzia borghese e privilegiata. Recita il personaggio del bravo bambino, si lancia in ragionamenti al di sopra della sua età, incline ad un istrionismo esasperato, lodato e incoraggiato dalla famiglia, adorato dal nonno come “uno strano favore del destino”. L’ufficio di nonno Charles trabocca di libri. Queste “pietre fitte”, che il nonno maneggia “con una destrezza da officiante” diventano per Jean-Paul un’ossessione. Li prende, li sfoglia, a volte Anne Marie legge per lui. Scopre le parole: paurose e gorgoglianti, vibranti, misteriose, in grado di trasmettere “il proprio carattere alle cose, trasformando le azioni in riti e gli avvenimenti in cerimonie”. Un universo tutto da decifrare...

Apparsa per la prima volta sulla rivista “Les Temps Modernes” nel 1963, pubblicata successivamente in volume dall’editore Gallimard nel 1964 – nello stesso anno Sartre, ormai cinquantanovenne, rifiutava il premio Nobel –, Le parole (Les mots) è l’affascinante biografia letteraria in cui il più grande esponente dell’esistenzialismo novecentesco rilegge la propria infanzia e, con essa, il principio del proprio rapporto con la letteratura. Prime compagne del giovane Sartre, le parole, centro del suo mondo di bambino solitario. “I libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità”. Così scrive Sartre, raccontando la nascita di una passione che si fa rapidamente vocazione, consacrazione al “martirio” della scrittura. Le due parti che compongono lo scritto – Leggere e Scrivere – dipingono le due fasi di questa iniziazione letteraria. Dai primi “cerimoniali di appropriazione” dell’oggetto-libro, spiati e replicati nella biblioteca del nonno Charles Schweitzer, al vorace “assalto all’umano sapere”, dalla scoperta del cinema ai primi innocenti plagi, storie d’avventura vissute con il trasporto – pur giocoso agli occhi degli adulti – di una missione fondamentale e salvifica. Il Sartre ormai maturo ricrea il fanciullo con tagliente ironia, con un linguaggio incredibilmente pieno e ricco, vario, affabulatorio, cui l’accurata traduzione di Luigi de Nardis fa onore. Le parole descrive l’incipit di un’esistenza che può dirsi davvero tale solo nell’espressione e identificazione letteraria. Nascono pagine a dir poco ammalianti: “Le mie ossa sono di cuoio e di cartone, la mia pelle incartapecorita sa di colla e muffa, attraverso sessanta chili di carta mi sistemo comodissimamente. [...] Mi prendono, mi aprono, mi espongono sul tavolo, mi lisciano col palmo della mano, e a volte mi fanno crocchiare. [...] Nessuno può dimenticarmi, né passarmi sotto silenzio: sono un gran feticcio maneggevole e terribile. La mia coscienza è in briciole: meglio così. Altre coscienze m’hanno preso a carico. Mi leggono, salto agli occhi, mi parlano, sono in tutte le bocche, lingua universale e singolare; in milioni di sguardi mi faccio curiosità indagante; per colui che sa amarmi sono la sua più intima inquietudine, ma se vuole raggiungermi, mi cancello e sparisco; non esisto più in nessun luogo, io sono, finalmente!” E se le finzioni dell’infanzia hanno svelato la loro inconsistenza agli occhi del Sartre adulto, ormai consapevole e disilluso, che “non può ricordare senza ridere i suoi vecchi errori”, la scintilla non si è mai spenta, “tutti i lineamenti del fanciullo sono rimasti nel quinquagenario”. Le parole costruiscono il mondo, sono strumento necessario e collettivo, l’unico in grado di negare la morte e di concedere all’uomo il conforto – o la condanna – d’uno specchio, “il solo a offrirgli la sua immagine”. Un messaggio universale, che questo affascinante scritto continua a ricordare con successo alla posterità.