
Spagna. Carcere femminile di Ventas, 1939. Il franchismo ha preso il sopravvento, le carceri scoppiano di repubblicani fatti prigionieri. A Ventas è rinchiusa Hortensia, raccolta nel suo silenzio, capelli lunghi stretti in una treccia. Se parla, lo fa sussurrando e quando ride, grida "Oh Madonna mia", senza riuscire a fermarsi. Passa le sue giornate a fissare pensieri e fatti su un piccolo quaderno azzurro. Hortensia è stata condannata a morte perché comunista dell’Agrupación Guerrillera de Extremadura y Centro, ma è incinta e fintanto che durerà il suo stato interessante la sua vita sarà salva. Ha combattuto accanto a Felipe, il suo uomo, braccio destro di Paulino, detto il Caqueta negra, capo dei guerriglieri maquis. Non si vedranno e ciò che resterà del loro amore è Tensi, la bambina che Hortensia porta in grembo, nata grazie all’aiuto di Sole, una compagna di cella, e che crescerà grazie alle cure amorevoli di Pepita, sorella di Hortensia, che le leggerà i quaderni che la madre scriveva in carcere. La vita di Hortensia si intreccia a quella delle sue compagne di prigione. Alla vita di Elvira, 16 anni, sorella di Paulino, la più giovane tra le recluse. Durante la prigionia Elvira si teneva stretta la sua giovinezza riempiendo di ceci un guanto a simulare la testa di un pupazzo. Nella cella c’è anche Tomasa, dalla pelle olivastra e dagli occhi a mandorla. Si guarda intorno inebetita e vive sospesa tra la realtà della prigione ed il suo terribile segreto, che porta appuntato sul cuore: il marito, la nuora ed i figli sono stati vittime dei falangisti che li hanno buttati giù da un ponte. Chiede sempre del mare, perché è nel mare che è sprofondato il suo dolore, portato via dalla corrente del fiume. La vita di Hortensia ed anche la sua morte si intreccia indissolubilmente alla vita di Pepita, sua sorella. Figura combattuta che non ha subito la crudeltà del carcere, ma che è rimasta ugualmente turbata dal clima della guerra civile. Lontana dalla politica che non ama e non capisce, a cui serba profondo rancore per averla allontanata dalla sua città, Cordoba dall’amore di sua sorella, dal suo uomo, il Caqueta negra, costretto a riparare il Francia, sotto altre spoglie, con un altro nome, Jaime Alcantara...
Sullo sfondo di una Spagna dilaniata dalla guerra, il romanzo è un’altalena tra il dolore intenso che si trasforma in paura e l’amore profondo, per una causa, per un uomo, per i compagni e le compagne di lotta. Un intreccio commovente che assurge d’imperio all’Olimpo delle opere per eccellenza dedicate alla guerra civile spagnola dal miglior Hemingway, Per chi suona la campana, allo struggente Orwell di Omaggio alla Catalogna. Nella struttura nulla sembra essere fuori posto, ogni pezzo si incastra agli altri nella coralità delle esperienze e scorre fluidamente sotto gli occhi del lettore. Se anche ogni parola sembra essere il frutto di una profonda meditazione, di un’analisi accurata, l’impianto lirico non è ricercato. Ha invece il pregio di fare saltare fuori dalle pagine esattamente quello che esse descrivono: confusione laddove c’è confusione; concitamento laddove c’è concitamento; dolore, laddove esso è profondo ed irreversibile. Dulce Chacón, dando voce alle donne repubblicane ridotte al silenzio dal regime franchista (da qui il titolo originale del romanzo, la voz dormida), butta una luce bellissima ed inedita sulla loro partecipazione alla guerra civile, in un gioco abile di flashback e flashback nel flashback in cui ad emergere è il contrasto tra la delicatezza di quelle figure, in cui i sentimenti umani e la dedizione per una causa finiscono per confondersi, e lo squallore della guerra e delle sue conseguenze. Basato sulle testimonianze dirette di chi quella guerra l’ha vissuta (l’autrice dedica a quelle muse le ultime pagine del libro), è anche il testamento letterario della Chacón, scomparsa prematuramente nel 2003 a 49 anni. Uno spaccato lucido di un pezzo di storia che non è stata ancora del tutto raccontata, un modo delicato ed emozionante di ridare voce a chi da sessant’anni attende che venga fatta giustizia (“si no miramos hacía atrás, no podremos mirar hacía adelante”, “se non guardiamo indietro, non potremo guardare avanti”).
Sullo sfondo di una Spagna dilaniata dalla guerra, il romanzo è un’altalena tra il dolore intenso che si trasforma in paura e l’amore profondo, per una causa, per un uomo, per i compagni e le compagne di lotta. Un intreccio commovente che assurge d’imperio all’Olimpo delle opere per eccellenza dedicate alla guerra civile spagnola dal miglior Hemingway, Per chi suona la campana, allo struggente Orwell di Omaggio alla Catalogna. Nella struttura nulla sembra essere fuori posto, ogni pezzo si incastra agli altri nella coralità delle esperienze e scorre fluidamente sotto gli occhi del lettore. Se anche ogni parola sembra essere il frutto di una profonda meditazione, di un’analisi accurata, l’impianto lirico non è ricercato. Ha invece il pregio di fare saltare fuori dalle pagine esattamente quello che esse descrivono: confusione laddove c’è confusione; concitamento laddove c’è concitamento; dolore, laddove esso è profondo ed irreversibile. Dulce Chacón, dando voce alle donne repubblicane ridotte al silenzio dal regime franchista (da qui il titolo originale del romanzo, la voz dormida), butta una luce bellissima ed inedita sulla loro partecipazione alla guerra civile, in un gioco abile di flashback e flashback nel flashback in cui ad emergere è il contrasto tra la delicatezza di quelle figure, in cui i sentimenti umani e la dedizione per una causa finiscono per confondersi, e lo squallore della guerra e delle sue conseguenze. Basato sulle testimonianze dirette di chi quella guerra l’ha vissuta (l’autrice dedica a quelle muse le ultime pagine del libro), è anche il testamento letterario della Chacón, scomparsa prematuramente nel 2003 a 49 anni. Uno spaccato lucido di un pezzo di storia che non è stata ancora del tutto raccontata, un modo delicato ed emozionante di ridare voce a chi da sessant’anni attende che venga fatta giustizia (“si no miramos hacía atrás, no podremos mirar hacía adelante”, “se non guardiamo indietro, non potremo guardare avanti”).