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Le valigie di Auschwitz

Le valigie di Auschwitz
Il libro narra le storie di cinque bambini: Carlo, Hannah, Jacob, Émeline, Dawid. Nati e vissuti in città diverse d’Europa, lontani tra loro per lingua, abitudini, ceto sociale, tutti questi bimbi, un triste giorno, sono costretti a preparare la propria valigia e ad abbandonare casa, scuola, amici. Perché? La risposta è crudele: sono bimbi ebrei. Carlo vive a Milano ed è figlio di un ferroviere. Spesso il padre lo porta alla stazione Centrale a vedere arrivare e partire i treni. A Carlo, che ha nove anni, piacciono soprattutto i treni in arrivo, puntuali, “potenti ed invincibili”, e gli piace farsi regalare i biglietti usati dai viaggiatori che scendono dalle carrozze. Li colleziona tutti, come preziosi cimeli, in un suo cassetto. Finché un giorno al babbo di Carlo viene impedito di andare a lavorare… Il secondo racconto narra di Hannah e Jacob, che vivono a Lipsia, in Germania. Hannah è la sorella maggiore; Jacob, appena sei anni, è un bimbo speciale, gracile e delicato. Il regime hitleriano non tollera le persone fragili e malate, per questo Jacob viene tolto alla famiglia. Da quel momento Hannah non è più capace di sorridere, non frequenta più la scuola; soltanto, la sera si affaccia alla finestra e conta le stelle. Émeline, la protagonista del terzo racconto, abita a Parigi con i genitori, giovani intellettuali ebrei, in un appartamento dalle persiane blu come il mare, vicino al Parc Monceau. Una mattina di maggio un cartello sulla cancellata avverte: “Ai bambini ebrei è vietato entrare nel parco”. Émeline non si spiega il perché. L’ultima storia è quella di Dawid, ragazzino del ghetto di Varsavia. Il racconto inizia mentre Dawid è nascosto in cantina, sotto una botola ben mascherata. Il bambino tiene stretto a sé il violino che il babbo gli ha affidato dicendogli: “Tienilo con te, ti aiuterà nei momenti tristi e ti accompagnerà nei momenti felici, quando tornerà la gioia”.
Le valigie di Auschwitz, libro di narrativa che ha vinto il Premio “Il battello a vapore 2010”, ha indubbiamente intenti didattici e informativi. Si apre infatti con un prologo che spiega in modo chiaro ai ragazzi dove si trovi e che cosa sia il campo di sterminio di Auschwitz. Pone l’accento sul fatto che esso, come tanti altri luoghi di reclusione e di morte, fu voluto dal nazismo per sterminare gli ebrei e spiega che oggi, affinché nessuno dimentichi quegli orrori, perché la memoria è importante, il campo è diventato un museo. In questo museo, “nella stanza numero 4 del blocco 5 c’è un lungo vetro che separa il visitatore da migliaia di valigie ammassate l’una sull’altra. Una montagna di borse vuote, tutte diverse: vecchie, rotte, strette, larghe, rattoppate, di cartone, eleganti, di stoffa, di pelle…”. È appunto da questo dato storico che parte la narrazione romanzesca delle vite dei nostri cinque piccoli ebrei, delle loro abitudini quotidiane, degli oggetti a loro più cari, tutti poi stipati e chiusi in fretta e furia in una valigia da trascinare con molta fatica e con poca speranza. Le valigie di Auschwitz si inserisce nel filone di libri che, pur non scritti da testimoni diretti di quei tragici avvenimenti, si propongono di offrire spunti per far riflettere bambini e ragazzi sul tema della Shoa. Però sorprende, perché - al contrario di quanto risulta dalle opere di autori che hanno vissuto personalmente le discriminazioni razziali durante l’infanzia, sia in Italia che in altri Paesi d’Europa - descrive ogni non ebreo come poco solidale nei confronti dei perseguitati, come spia priva di scrupoli nel determinare l’esclusione sociale o nel porre in pericolo di vita concittadini colpevoli solo di appartenere a una religione diversa. I piccoli ebrei, inoltre, sembrano rivendicare fieramente il loro credo religioso e la loro identità; mentre è noto che sugli ebrei dell’Europa Occidentale la persecuzione razziale si abbatté come fulmine a ciel sereno, tanto più inopinata ed inspiegabile per il fatto che ciascun israelita si sentiva innanzitutto e a pieno titolo cittadino del proprio Paese. Le affermazioni di fierezza giunsero dopo la Shoa, tra i sopravvissuti. Insomma, il libro risente un po' di una lettura dei fatti che non trova molte corrispondenze nella storiografia  e nelle testimonianze dei sopravvissuti; quindi va letto con spirito critico. L’autrice, Daniela Palumbo, è giornalista e collaboratrice del periodico di strada “Scarp de tenis”; oltre a questo fortunato romanzo ha scritto un testo sulla disabilità.