
Alla mezzanotte lo scrittore Michele Mari è stato convocato nella Sala del Camino. È buio, ma lui sente la presenza di tutti loro. Quello che Gorgoglia gli ha chiesto la sua autobiografia. Ma come la mettiamo con l’altra autobiografia già commissionatagli la settimana precedente dall’Accademia dei Ciechi? “Eh no!”, ha precisato Quello che Gorgoglia: questa dovrà essere diversa, totalmente nuova e solo un fatto potrà essere ripetuto: l’essere egli nato da un amplesso abominevole. “Scrivi”, continuano a ripetergli. E il povero Michele ha paura, ha il sospetto che potrebbero anche affidare l’intera faccenda a Quella dalle Orbite Vuote e questo proprio non lo sopporterebbe. Proprio no. E scrive della sua nascita, avvenuta in inverno, otto mesi dopo il concepimento e il numero otto, si sa, è simbolo di aberrazione. Ma egli non fu mostro, però mostruoso fu il rapporto che intrattenne con se stesso. Poi di cosa potrebbe parlare per rimanere nel concetto di “bio”? Di Ovidio il bidello? O dello studio o del fatto che egli fu cupo e spinoso come un cactus e produsse dei fiori cibandoli delle sue stesse polpe? E tutti quei grumo-nodi irrisolti? Il grumo-nodo padre? Il grumo nodo madre?
Michele Mari torna in libreria con una autobiografia definita “horror”. In uno scenario tra il fantastico e il grottesco, l’autore scava nel proprio passato, per affrontare paure e mostri più o meno malvagi. E sono proprio gli anni della giovinezza – tema peraltro non nuovo nelle opere del Mari – quelli nei quali si trova precipitato, merito o colpa degli Accademici, per impelagarsi nel suo labirintico passato di dubbi, fobie, ma anche amore e cercare di dipanare quelle matasse – o meglio grumo-nodi – da cui ha origine la sua natura quasi scissa: una madre la cui divisa era la tristezza e un padre, il noto designer Enzo Mari, ingombrante e immenso. È un romanzo crudo ma anche crudele, feroce, senza orpelli nel quale l’autore si trova a fare i conti con la sua infanzia perché benché, come il medesimo ha dichiarato “piena di traumi e di lutti” rimane per lui la “cosa più significativa” che ha vissuto. E le sue parole colpiscono e feriscono perché prive di edulcoranti, di anestetizzanti, neppure blandi. Lui entra a testa alta nel suo passato, nei suoi conflitti familiari, nelle sue guerre, senza alcuna corazza. Coraggiosamente. Il tutto con il suo stile originale, fuori da schemi preconfezionati nel quale si passa, con nonchalance, da un registro linguistico ad un altro e con l’uso sapiente di una lingua che risulta, ad ogni pagina, fertile, ricca e variegata. Il libro è inoltre intervallato da una trentina di fotografie in bianco e nero che accompagnano e esplicano la lettura degli eventi narrati, ma che – in qualche modo ‒ parlano da sole.