
Un cumulo di neve caduta dal letto la sveglia all’improvviso. Adelaide è arrivata ieri sera, nel bel mezzo di una tormenta a causa della quale l’auto ha arrancato lungo il tornante che la conduce a casa sua, nel paese in cui è nata. Appena varcata la soglia, è investita dall’odore di umidità e di cipolla stantia e tutto all’interno le pare nudo e terribile: le ragnatele, la calce che si è fatta farina e il fantasma di chi non c’è più. Ora, dopo una notte in cui non ha davvero dormito di un sonno profondo, il tonfo che fa vibrare il vetro è una specie di schiaffo al silenzio della casa. La cucina è ormai fredda. Adelaide apre gli scuri e nota che, mentre il cielo si è schiarito, i fianchi delle montagne mettono in evidenza ogni spigolo di terra. Devono essere caduti almeno trenta centimetri di neve, quella che in quelle zone è chiamata “fresca”. La donna esce per respirare l’aria gelida e si siede, intabarrata nello scialle che le ha cucito Memè con l’ultima lana cardata, sulla panca. Quando rientra, la brace nella stufa è ancora tiepida; Adelaide ne riempie un secchio da seminare lungo i viottoli, per riuscire a rimanere in equilibrio. Si prepara un caffè, ma il suo gusto è poco gradevole: sa di chiodi bagnati. La casa di Nanà è l’ultima prima del bosco. Adelaide infila nel maglione il Pain d’épices e, armata di pala e secchiello, comincia a muoversi in quella direzione. Le finestre della casa di Nanà prendono la luce del giorno. Adelaide chiede due volte permesso, apre la porta e viene accolta da una nebbia di porri e patate. Le assi del pavimento scricchiolano sotto i piedi nudi di Adelaide, che ha sfilato le scarpe e le ha lasciate all’ingresso. Nanà è seduta sul divano, in mezzo a gomitoli di lana. Sta lavorando a maglia, ma allarga le braccia: la sua ospite la stringe forte e sente le ossa dell’anziana scricchiolare, esattamente come le assi del pavimento. Nanà si avvicina alla stufa, dove ribolle il minestrone. Tira fuori la caffettiera, poi prende due bicchieri, li appoggia sul tavolo e fa cenno alle zollette di zucchero. Mentre Adelaide sorseggia un bicchiere di caffè, Nanà con un biscotto in bocca si dirige verso la cantina. Ne riemerge poco dopo con un vasetto di grasso – quello che serve ad ammorbidire ogni cosa, dalla pelle arrossata alle scarpe, dai geloni alle minestre – insieme a un salame, che l’anziana donna si appresta a pulire con la carta di giornale...
Tornare a casa, nel luogo speciale in cui il cuore può finalmente riprendere il suo battito regolare e i pensieri smettono di essere un gomitolo di fili intrecciati, ma trovano la loro giusta collocazione. Tornare a respirare gli odori di un passato ormai remoto ma ancora vivo e potente nel magazzino dei ricordi; tornare ad assaggiare i sapori che ancora sono capaci di coccolare e lenire le preoccupazioni; tornare a parlare – in quel patois che è musica per chi di quella lingua ha nutrito la propria infanzia – con una novantenne in grado di accendere i ricordi e condividere le sensazioni. Il romanzo di Valeria Tron – mediatrice culturale, artigiana del legno e cantautrice, finalista al Premio Tenco, che trascorre gran parte dell’anno nella sua Val Germanasca, che le ha dato i natali – è pura poesia. Adelaide, la protagonista, sente la necessità di tornare ad abitare l’unico posto capace di donarle quella pace, di cui la donna è alla ricerca, che possa permetterle di superare il dolore legata al naufragio di una relazione. Ed è lassù, in quel posto chiamato casa, che la compagnia dell’anziana Nanà, memoria storica e puro concentrato d’affetto e accoglienza, diventa balsamo in grado di richiamare i ricordi e di risvegliare gli affetti, quelli che possono riconciliare la donna con il mondo e con se stessa. Quattordici giorni di isolamento che si fa cura: valigie di ricordi e segreti, scatole di esistenze e linguaggi diversi, accomunati dalla fame d’amore e di condivisione; fiumi di parole espresse in un dialetto che è calore e si fa depositario di racconti di guerra e amore, di povertà e speranza, di fatica e coraggio. Un viaggio nella memoria e nelle stanze vuote di un’esistenza, alla ricerca del proprio equilibrio, quello che si può trovare tuffando le mani in un passato che si lascia svelare fino nella sua parte più intima e racconta i sentimenti e i mille modi d’amare di cui l’umanità è capace. Una lettura intensa, poetica e ricca, che cura, consola e accomuna; un viaggio meraviglioso attraverso un inverno nevoso e freddo fino a una primavera di luce, in cui il chiarore delle lucciole indica la nuova via da percorrere.